Una Pasqua inaspettata e repentina quella di Enrico che, nel giro di pochissimo tempo, in modo sommesso e discreto, ha preso congedo da Caterina, dai suoi zii e cugini e dal mondo delle istituzioni di cui faceva parte quale Assessore all’Urbanistica del Comune di Potenza. Discrezione divenuta massima anche nel gestire quest’ultima fase della sua …
Una Pasqua inaspettata e repentina quella di Enrico che, nel giro di pochissimo tempo, in modo sommesso e discreto, ha preso congedo da Caterina, dai suoi zii e cugini e dal mondo delle istituzioni di cui faceva parte quale Assessore all’Urbanistica del Comune di Potenza. Discrezione divenuta massima anche nel gestire quest’ultima fase della sua vita, non volendo far preoccupare nessuno e non volendo essere di peso ad alcuno.
Dalle testimonianze raccolte, in particolare dall’incontro con Caterina sua moglie, nel descrivere Enrico ho colto quella categoria che qualcuno definisce come “pro-esistenza” (D. Bonhoeffer), uno stare al mondo, cioè, tutto segnato da una sorta di estroversione in cui l’altro con i suoi bisogni e le sue domande, venivano prima di sé, sempre, comunque.
È accaduto già nel farsi carico della mamma, deceduta lo scorso febbraio, ma è accaduto anche in altre situazioni come molti di voi possono testimoniare. Il suo non era soltanto senso del dovere ma espressione di quella magnanimità che è in grado di non far sentire mai nessuno alle strette nel proprio cuore. Uno che amava “non a parole ma con i fatti e nella verità” come afferma san Giovanni nella sua Lettera (1Gv 3,18) e come mi avete dato prova.
Non c’era ambito in cui a guidare Enrico non fosse l’abnegazione, parola e atteggiamento caduti quasi in disuso: dagli affetti allo sport, dalla politica al lavoro. In un tempo in cui sembra prevalere la “via dell’ascesa” a voler affermare il proprio bisogno di essere potenti, importanti, spettacolari, chi sceglie la “via dell’abbassamento” come Enrico, può marcare la differenza come attesta questa nostra cattedrale così gremita. Aveva a cuore questa città con una passione che si traduceva nel farsi carico delle situazioni a qualsiasi prezzo.
Questo modo di stare nella vita e nelle relazioni è incarnazione di quell’invito che san Paolo rivolge nella lettera ai Fil: “ognuno di voi in tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso” (2,3).
Nel brano evangelico Gesù equipara al sale della terra e alla luce del mondo, uno sparuto gruppo di uomini che si sono lasciati attrarre da un Rabbi di Galilea. Eccessivo, verrebbe da obiettare. Eppure Gesù osa credere che chi ha agganciato la propria esistenza alla sua, faccia la differenza nel suo contesto più immediato anzitutto dando sapore all’interno della sua comunità e proprio per questo possa essere luce per tutti.
Che cos’è una pietanza senza il sale? Qualcosa che mangi ma non gusti, non assapori.
Che cos’è un bel dipinto o un paesaggio senza la luce? Solo un piano informe, ossia qualcosa di indistinto.
Ebbene, il cristiano è proprio così: uno che “condito con la vita nuova che viene da Cristo” (Giovanni Paolo II), immette un sapore nuovo in chi ha perso il gusto del vivere e perciò non si attende più nulla. Il cristiano è uno che, avendo accolto nella sua vita la luce vera che è Cristo, non permette la ricerca del proprio interesse, non passa sopra l’altro, non è abitato dal desiderio di afferrare ogni cosa e non ignora il grido di aiuto di un amico. Cose, queste, che Enrico ha saputo esprimere fino in fondo.
C’è luce quando ci si apre a gesti di condivisione, quando si pronunciano parole di perdono, quando la riconciliazione è perseguita con impegno, quando si è “cura nella cura” secondo la bellissima espressione riportatami da Caterina.
Ben poca cosa è il sale (esso, infatti, non è né il cibo né il cuoco), ma senza, le cose non hanno il loro gusto specifico.
Ben poca cosa è una luce (essa non è né il paesaggio né l’occhio che osserva), ma senza, non riusciresti a distinguere i contorni e ad ammirare la bellezza delle cose.
Il sale non si impone ma si espande, la luce non calca ma evidenzia con discrezione.
Da che cosa riconosceresti che uno è cristiano? Lo riconosci se c’è comprensione pur sapendo di pensarla diversamente, c’è rispetto pur nella consapevolezza di appartenere a culture differenti, c’è la disponibilità a parlare con tutti e a lavorare congiuntamente.
Per essere sale è necessario sciogliersi, perdere se stesso. A contatto con le pietanze, non lo trovi più ma se c’è lo senti, così come ti accorgi se manca. Un cristiano se c’è lo senti e ti accorgi se manca.
Dio continua l’opera della sua creazione, continua, cioè, a impastare questo mondo servendosi del sale che è ciascuno di noi, prendendo a prestito i miei doni, la mia competenza, il mio ingegno, le mie risorse.
Dio ha fiducia in me mentre mi affida il compito di esaltare il gusto di ciò con cui entro in contatto e di conservare preservando. Cosa potrà mettere al mio posto se io perdo il sapore? Con che cosa potrà illuminare l’esistenza di tante persone, se io mi spengo?
A chi di noi è alla ricerca della propria identità, viene incontro il Signore proprio con queste due affermazioni: voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo. Gesù non annuncia un imperativo etico ma una identità già in atto perché ricevuta in dono con il Battesimo e che diviene operante per mezzo della fede.
Ed ora cosa resta? Resta questo.
“La fede nella risurrezione ci attesta che nulla va perduto della nostra vita: nessun frammento di bontà e bellezza, nessun sacrificio per quanto nascosto ed ignorato, nessuna lacrima e nessuna amicizia”.