‘Ma voi, chi dite che io sia?…’
Non gli importava affatto il parere della gente che lo leggeva secondo categorie passate non in grado di cogliere l’identità della sua persona. Per questo dopo aver raccolto le dicerie sul suo conto si spinge oltre per chiedere: ma voi chi dite che io sia?
Chi sono io per te? È la domanda che il ragazzo pone alla ragazza e viceversa per saggiare che cosa è davvero importante per l’uno e per l’altra. E in genere non è una domanda che si pone in un luogo qualsiasi. Può essere posta – se non la si vuol rendere banale – nel luogo dell’intimità, là dove misuri non solo ciò che dici ma anche il modo in cui lo esprimi.
Anche Gesù pone questa domanda proprio in un contesto di intimità, di solitudine, di silenzio, durante la preghiera. La domanda circa la propria identità può essere posta solo fuori dai rumori.
In genere questa domanda non viene posta appena ci si è conosciuti ma solo dopo aver condiviso un tratto di strada insieme. I discepoli si sono fidati della sua parola quando un giorno li aveva chiamati dalle loro occupazioni, lo hanno seguito, hanno visto il modo in cui avvicinava e si lasciava avvicinare dalla gente, hanno ascoltato ciò che in più di una circostanza era uscito dalla sua bocca, avevano intravisto qualcosa di quello che lo animava.
Chi sono io per te? Prova a dirlo con parole tue. A Pietro può anche andare che Gesù venga letto come un profeta ma non gli basta. Per lui Gesù è altro, non già uno dei tanti. Finalmente riesce a dirgli quello che davvero pensa: non c’è più da attendere nessuno, finalmente abbiamo trovato ciò che cercavamo. Tu sei il Cristo di Dio.
Ma Gesù non commenta la risposta di Pietro. Soltanto chiede a lui e agli altri di tacere. Anzi. Inizia a fare un discorso oscuro che i discepoli non hanno neanche la forza di interrompere. Preferiscono tenersi ben stretta l’immagine di Messia che non prevede affatto umiliazione e morte ma solo un prossimo successo. Per loro Gesù a Gerusalemme sarà finalmente riconosciuto come il re atteso. Sono attaccati a quella immagine come alla loro stessa vita.
Nessuno di noi sfugge alla tentazione di essere affascinati da una potenza che non è quella di Dio come Gesù l’ha manifestata. Si tratta di quella tentazione che ci fa rifiutare in maniera sistematica la debolezza come lo spazio all’interno del quale Dio si consegna agli uomini.
Il vangelo attesta continuamente come Dio manifesti la sua potenza: quella di Dio è potenza nell’amore e nell’abbassamento.
È una tentazione quanto mai seducente quella che proprio a partire da una nostra debolezza accettata con difficoltà, ci si rifugi in un Dio dotato di potere soprannaturale chiedendogli di rivestire i tratti di una potenza che egli non ha mai voluto manifestare, neppure a fin di bene.
Gesù non è uno dei tanti profeti. La sua testimonianza di Dio è unica, definitiva. I discepoli sanno benissimo di aver dato fiducia a uno che ha tutte le garanzie per essere l’inviato di Dio.
È proprio questo che rende inaccettabile l’annuncio della passione. Essi che devono aver faticato non poco per accordare un simile credito ad un uomo all’apparenza come loro, ora lo vedono venir meno in maniera incredibile. Non c’è da scherzare: Gesù sta parlando di smentita pubblica e di una condanna a suo carico in nome di Dio. E questo, a suo dire, è inevitabile: il Figlio dell’uomo deve… Eppure, per quanto Gesù lo veda come inevitabile, un tale evento è inconciliabile, impossibile, con la loro fede nel Messia. Com’è possibile che un uomo che parla come nessun altro mai ha parlato e al quale obbediscono persino il vento e il mare, un uomo che risuscita i morti, guarisce i malati sia destinato a perire? E per quale motivo? Per una accusa di eresia, se non addirittura di ateismo. Ma non scherziamo, dicono i discepoli. Non è comprensibile che quella persuasione alla quale essi sono riusciti a giungere, ora abbandoni proprio il loro Maestro.
Eppure – ripete Gesù – non c’è altra strada. Il discorso è serio. Pietro, infatti, lo intuisce. Intuisce che se è vero quanto Gesù afferma, egli – insieme agli altri discepoli e a noi – dovrà imparare che ciò che dice la legittimità di Dio – quando è Dio – è la testimonianza estrema resa nei confronti del fatto che Dio non può venir meno al suo essere abbà e che mai userà la forza per imporla. Sia che lo imploriamo nella preghiera (vuoi che invochiamo un fuoco dal cielo) sia che lo bracchiamo con la violenza (siete venuti con spade e bastoni), Dio non confermerà mai con i segni del potere e della forza la legittimità del suo rappresentante (lo liberi, se è suo amico).
Se leggo nella morte dell’altro, chiunque esso sia, il criterio grazie al quale posso dire che Dio è dalla mia parte, non è più Dio. Non posso concludere che Dio mi ami perché l’altro, a buon diritto, ci lascia le penne. Questa è perversione bell’è buona. Ma non è Dio.
Se la perversione e la stupidità dell’uomo penserà che è giusto versare il sangue di un innocente per onorare Dio, Dio verserà il proprio sangue per risparmiare quello dell’uomo. E questo a vergogna di tutto un impianto religioso tenuto in piedi per legittimare logiche di potere.
Forse questo ci può aiutare a comprendere perché Gesù chiami Pietro Satana: perché è il massimo della perversione perseguire un tale progetto.

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Dal Vangelo secondo Luca (9,18-22)

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».
Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».