“E ora che succede?”.
Ci sono momenti in cui con più realismo che in altre occasioni ci si ritrova a guardare al passato con un senso di disincanto. Ma c’è davvero qualcosa oltre questa vita? E se ci fossimo illusi? E se ci fossimo sbagliati? In alcuni frangenti ci pare quasi di aver vissuto invano alcune esperienze come sembra che invano abbiamo gioito di alcune presenze svanite all’improvviso.
Qualcosa di simile dovette essere ciò che provarono gli apostoli a Betania quando videro sottrarsi al loro sguardo quel Gesù dietro al quale avevano legato prima ancora che i loro passi, i loro progetti e i loro sogni.
È come se nel mistero dell’ascensione si rinnovasse la sofferenza provata il venerdì santo, con una differenza, però: in quella circostanza, infatti, per quanto il dolore fosse atroce c’era ancora un corpo da venerare e un luogo dove andare a versare le proprie lacrime. Ora non più. Paradossalmente sembrerebbe godere più plausibilità un corpo morto che una presenza non ben circoscrivibile. Per noi esiste solo ciò che si vede, ha consistenza solo ciò che è tangibile, è degno di fede ciò che è verificabile. Non è un caso che, quando non reggiamo l’assenza di Dio, non tardiamo a costruirci un idolo. L’idolo, infatti, è proprio ciò che emerge allorquando non si sopporta l’assenza o il silenzio di Dio. Storia di ieri, storia di sempre. Generazioni e generazioni hanno preferito ritrovarsi attorno a divinità frutto delle mani dell’uomo identificabili in una statua piuttosto che lasciarsi interpellare da un Dio che sembra intervenire a intermittenza e non secondo le nostre aspettative. Tema tutto ancora da frequentare quello del non crearsi immagine alcuna di Dio.
Quel giorno, a Betania ebbe inizio la vera e propria sfida per ogni credente: smettere di attendere inermi il ritorno annunciato e affrettarsi a scendere nella mischia. Non è il cielo da guardare ma la terra: d’ora in avanti ogni luogo può essere sede dell’appuntamento con Dio e ogni ora il tempo della grazia. Paolo lo incontrerà sulla via di Damasco mentre si accingeva a perseguitare i cristiani, Francesco d’Assisi lo riconoscerà nel Crocifisso di San Damiano, Teresa di Calcutta nel volto dei poveri: all’acqua della rivelazione di Dio ognuno ci arriva con la propria tazza.
A chi vorrebbe contrabbandare l’esistenza terrena come un’inutile fatica toccata all’uomo, l’Ascensione ripete che non c’è storia senza via d’uscita: tutto di noi ha un felice approdo sebbene la strada per giungervi talvolta sia l’equivalente di un tratturo. Con il mistero dell’Incarnazione prima e dell’Ascensione poi, Dio non è da cercare in un cielo distante ma nell’appartamento che è sul tuo pianerottolo. Ha scelto quello che oggi definiremmo “domicilio”, indirizzo temporaneo: la sua abitazione è la storia e il volto dell’altro. Non c’è terra in cui egli non abbia scelto di abitare e non c’è storia che non abbia scelto di fare sua. Forse comprendiamo meglio l’invito rivoltoci domenica scorsa da san Pietro quando ci spronava ad adorare Cristo nei nostri cuori e a rendere ragione della speranza che è in noi, con dolcezza e rispetto. Se avessimo questa disponibilità a riconoscere le tracce della presenza di Dio disseminate in ogni dove, tutto raccoglieremmo e accosteremmo come reliquia preziosa della sua presenza, l’intuizione come la capacità di mettersi in gioco, la gioia per un obiettivo raggiunto come la lacrima che scorre furtiva quando ci sembra di non avere più un motivo per andare avanti, la capacità di tenere fede agli impegni presi come l’inquietudine che sembra non trovare riposo alcuno. Tutto reliquia preziosa della sua presenza.
Nell’istante in cui se ne va, la terra non diventa un ostacolo nel vivere la nostra appartenenza al Signore. Anzi: proprio il rapporto con la terra, la passione o la superficialità con cui trattiamo le cose di ogni giorno, tradiscono la consapevolezza di essere fatti o meno per il cielo.
“E ora che succede?”
“Tocca a voi”.