L’occhio di Dio
L’infanzia di molti di noi è stata attraversata, quando non condizionata, dall’incombere dello sguardo di Dio: “Dio ti vede”. Per molti di noi, Dio ha fatto la sua comparsa nella nostra personale vicenda in rapporto alla scoperta di una trasgressione o magari all’esperienza della colpa. E per molti di più, Dio è rimasto associato a tale rapporto.
Che cosa ne è conseguito? Che l’evento infausto e incomprensibile come una disgrazia improvvisa, la malattia, la morte inattesa, pure riconosciuto come sproporzionato rispetto ad una eventuale colpa evidente, richiama una punizione che va ben al di là di una giustizia retributiva e diventa perciò una sorta di accanimento persecutorio. Su un simile sfondo, l’occhio di Dio che indaga è sempre più mastodontico.
Come funziona il nostro catechismo da quattro soldi?
Dio ci colpisce. Per quale motivo? Per punirci delle nostre mancanze, per mettere alla prova la nostra fedeltà, per far sì che impariamo a non restare attaccati a dei beni caduchi. Ora, posti questi principi di catechesi bieca, per bene che vada – e sfido chiunque a provare il contrario – ci sono comunque tragedie che rimangono sproporzionate a fronte di questi motivi. Anche perché ci sono delle cose che non accetteremmo come valide neppure se un uomo dovesse compierle nei confronti di un altro uomo. Perché mai dovremmo accettarle per buone nel caso di Dio?
Se il divino in cui devi confidare è lo stesso che alimenta il tuo terrore, non so che farmene della fede la quale non farebbe altro che condizionare la mia vita. Se Dio è paragonabile al dispotismo del faraone, in ogni momento e per qualsiasi ragione si può cadere in disgrazia. Chi può metterci al riparo degli umori dell’Altissimo?
Volontà di Dio?
Ho provato a ripensare a quanto stiamo vivendo in questi giorni nel nostro Paese in modo particolare.
Lo faccio perché la mia stessa fede mi chiede di farlo a fronte dei tanti tentativi di trovare una risposta a quanto sta privando della vita un certo numero di persone, sta togliendo il lavoro ad altre, sta portando via la serenità a quasi tutti noi che viviamo nel panico di poter essere contagiati, sta minando i nostri legami spingendoci a un nuovo assalto al “forno delle Grucce” di manzoniana memoria e facendoci vivere l’altro con sospetto ritenendolo un probabile untore. E, come se non bastasse, ci misuriamo altresì con il rigurgito di una teodicea che attribuisce a Dio la causa di tutto ciò. A fronte della perversione dell’umanità (chissà cosa avranno fatto di tanto grave quelli di Codogno e di Vò Euganeo!), Dio, irato, avrebbe fatto sì che un virus ancora sconosciuto, destabilizzasse esistenze e sistemi di vita. Secondo una simile mentalità, questo Dio è da placare: la sua ira potrebbe essere calmata e contenuta solo attraverso una moltiplicazione di pie pratiche che finalmente allontanino da noi il suo volto crucciato. Sarebbe interessante stabilire quali e quante formule ottengano con sicurezza e immediatezza il risultato sperato. Chissà perché abbiamo sempre bisogno di proiettare su Dio la nostra cattiveria! Eppure ci aveva già messo in guardia: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13).
Ma allora come stanno le cose? Cosa bisogna fare? Per che cosa pregare? Cosa chiedere? “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome” (Gv16,23ss.), ripete Gesù. Segno che si può pregare un Dio che non è quello rivelato dal Figlio stesso di Dio, Gesù Cristo. Una preghiera, dunque, che va orientata: chi prego quando prego? Per cosa prego quando prego? Quale Dio adoro?
La nostra fede ci ricorda che il nostro Dio non ama le epidemie, non le ordina, neppure a fin di bene. La nostra è una vicenda che Dio ha scelto di assumere sin dall’inizio. All’uomo che contesta a Dio il suo modo di essere presente nella storia, Dio risponde non giustificandosi ma invitandolo a guardare le cose da un’altra prospettiva. Gli eventi e le domande che essi suscitano vanno affrontati non con lo spirito della rassegnazione e della sopportazione, ma con quello del discernimento. In tutto ciò che accade è come racchiusa una parola che va ascoltata e accolta.
La volontà di Dio non si realizza negli eventi in quanto tali, ma nel modo in cui vengono vissuti.
Pregare
La preghiera, prima che far cambiare il cuore di Dio, mira a toccare il cuore stesso di chi la rivolge. Solo un cuore mutato dalla grazia (“quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!), è in grado di vedere ogni cosa alla luce di Dio. E non è proprio quello che più ci manca in quest’ora tanto grave?
Anche il Figlio, nell’ora del Getsemani chiederà al Padre di far passare oltre il calice che si profilava all’orizzonte. L’ora che sin dall’inizio il Figlio aveva annunciata, nel suo incombere è temuta. Il vangelo non nasconde nulla di questa paura. Nel colmo dell’angoscia, il Figlio si rifugia nella preghiera invocando quello che ogni uomo potrebbe chiedere naturalmente: essere risparmiato. Si trattò di un corpo a corpo che mise il Figlio a dura prova: la lotta fu così dura che il sudore si mutò in sangue. Fu il conforto dell’angelo a permettergli di entrare in quell’ora da cui è venuta la salvezza per tutti noi. Non a caso, poco prima, aveva suggerito agli apostoli di pregare “per non entrare in tentazione”, tentazione che non riguarda anzitutto la sfera della fragilità umana ma quella della fede.
Dalla preghiera rivolta al Padre, il Figlio ha trovato la forza per entrare nella sua ora. Dopo aver fatto tutto ciò che è in nostro potere fare in materia di ricerca, di sanità, di ordine pubblico, di senso civico, ecco ciò che dobbiamo invocare: la capacità di stare in questo momento con spirito di fede.
La preghiera è uno stare a scuola di attenzione nei confronti di tutto ciò che il Padre ha affidato alla nostra cura e alla nostra responsabilità. È una scuola di fiducia nel sapere che nella partita della vita, il primo a mettersi in gioco è proprio il Padre, il quale supera di gran lunga quello che ogni uomo saprebbe fare nei confronti dei propri figli.
Pregare, ovvero essere certi di poter osare per il grado di confidenza di cui il Padre stesso ci ha resi partecipi. È la qualità del nostro rapporto con lui a renderci capaci di ottenere persino l’impossibile.
Come è ovvio, la qualità del mio rapporto con Dio è presto verificata dal mio modo di stare nella vita. Cosa sono disposto a condividere? Troppo comodo chiedere a Dio di provvedere per noi il cibo necessario e di darne anche a chi non ha (come fa ripetere una preghiera per la benedizione della mensa). Potrò essere sfrontato nella mia supplica solo se sarò generoso verso chi bussa alla porta della mia casa. È la solidarietà verso il bisognoso la chiave che apre la porta del cuore di Dio. Quanto, nelle cose che chiedo a Dio, sono disposto io per primo a mettermi in gioco?
Può bussare, infatti, alla porta del cuore di Dio solo la mano che già ha fatto tutto per sollevare la sorte di chi ha chiesto un suo aiuto.
Le parole di Gesù (quando dice: “Chiedete e vi sarà dato”), infatti, non vanno intese in modo magico: esse sono piuttosto l’invito a passare al vaglio i nostri desideri. Per questo abbiamo bisogno di chiedere l’unica cosa necessaria, il dono dello Spirito Santo.
La grazia che tocca il cuore dell’uomo, infatti, muove l’intelligenza a scoprire nuove strade per affrontare ciò che minaccia il bene prezioso della vita umana.
La grazia che tocca il cuore dell’uomo spinge il fratello a sentirsi custode del fratello, come ha fatto il capitano Gennaro Arma il quale è sceso per ultimo dalla Diamond Princess, la nave rimasta ormeggiata dallo scorso 5 febbraio a Yokohama, a causa del coronavirus.
E le catene di preghiera? Servono anch’esse a dimostrare una forza maggiore per avvalorare agli occhi di Dio la nostra richiesta? E i digiuni? Se stanno così le cose meglio evitare. Tanto la preghiera, infatti, infatti, quanto il digiuno hanno nulla di magico. La comunione nella preghiera esprime piuttosto la presa di coscienza di ciò che c’è veramente in gioco. È un far sì che le parti più forti di un organismo (come ci ricorda Paolo nella 1Corinti) vengano in aiuto a quelle più deboli circondandole di maggior onore. È un corpo che compatta le sue energie e fa fronte all’emergenza non delegando ma assumendo la parte di responsabilità che gli compete.
A che serve pregare, allora?
A tenere viva nel nostro cuore la memoria della nostra identità: siamo figli, figli di Dio, figli di un Padre che ama e perciò non si vendica, non infligge il dolore secondo la responsabilità di male compiuto da qualcuno.
La preghiera è ciò che alimentando la relazione con il Padre tiene viva la consapevolezza che noi siamo incamminati verso l’incontro con lui.
Abbà è la parola chiave del Vangelo, una parola che Gesù ha ripetuto continuamente, ma in modo unico nel momento della scelta decisiva, nel momento in cui la prospettiva sarà quella della morte. Ripetere abbà in quel momento è il segno della fiducia che abita nel cuore del Signore, la consapevolezza, cioè, che la vita non affonderà nel nulla, ma fra le braccia di un amore. Fra le braccia di un amore affonda ogni esistenza, anche la mia. Il Padre nostro lo si capisce proprio in questa situazione limite.
Il Dio crocifisso
Nel dialogo con Nicodemo Gesù aveva affermato: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, quanto aveva di più prezioso (Gv 3,16).
E Paolo, quasi facendogli eco, dopo aver detto che il progetto di Dio sull’umanità è che ogni uomo sia figlio, aggiunge: “Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm 8,32). Affermando così, con tutta probabilità Paolo intende dire: “Non ha risparmiato il proprio Figlio… mentre ha risparmiato i figli degli uomini”. Poi aggiunge: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Forse la tribolazione, l’angoscia, la tribolazione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Signore” (Rm 8,31.35).
Se Dio è per noi: il Padre è per noi. Noi crediamo in un Dio-con-noi, l’Emmanuele, ma qui ci viene rivelato qualcosa di più: un Dio-per-noi. Non solo il Dio-con-noi che riempie la nostra solitudine, ma il Dio-per-noi. Dio per, cioè Dio in se stesso, nel suo essere più profondo, è a favore di, e non soltanto al fianco di.
Tutto il NT parla di un Padre così.
Ora un discorso vero su Dio non può prescindere dal confronto con l’esperienza di dolore e di male che sfigura l’uomo.
Quanti ci hanno preceduto non hanno mai cessato di porsi la domanda: “Perché Dio ha permesso il male?”.
Si parla sovente del concetto di Dio dopo Auschwitz dal momento che Auschwitz diventa la cifra emblematica del male e della disumanità. È possibile parlare di Dio dopo Auschwitz?
Un pensatore ebraico Hans Jonas pone questo interrogativo in un volumetto dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Per Jonas è una domanda inutile dal momento che Auschwitz è successo.
Forse la domanda da porsi è: Quale Dio ha permesso Auschwitz?
È questo il punto: non perché, ma quale Dio?
Quando noi diciamo: perché Dio ha permesso? Presupponiamo, più o meno consapevolmente di sapere chi è Dio. Per noi Dio è quella onnipotenza che non dovrebbe consentire che succeda il male.
Jonas risponde che il Dio che ha permesso Auschwitz è sostanzialmente un Dio impotente. Ma Dio è onnipotente o impotente? Che cosa s’intende per onnipotenza?
L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza dell’amore. Questo è ciò che noi abbiamo appreso dalla croce: la croce è la verità di un Dio che è sempre stato amore, che è soltanto amore, che non è mai stato altro che questo e non sarà mai altro all’infuori di questo.
Discernere
Sta a noi vivere questa emergenza virale come un’occasione per comprendere meglio la nostra umanità. Abbiamo bisogno di prendere coscienza nuovamente di ciò che, invece ci ostiniamo a rimuovere: la memoria del limite dell’essere umano. Forse dovremmo poter dire: benvenuta fragilità. Perché mai? Perché può aiutarci ad assumere comportamenti prudenti e responsabili, ma senza alcun automatismo.
Mai come in questo momento abbiamo bisogno di diventare “sociali”. Non basta essere “social” dietro uno schermo per dire di appartenere ad altri. Sociali significa costruire azioni collettive di protezione reciproca, sentire che l’altro mi appartiene, tornare a tessere legami.
Abbiamo paura e la paura rivela una insicurezza esistenziale dovuta proprio “all’indebolimento dei legami, allo sgretolamento delle comunità, alla sostituzione della solidarietà umana con la competizione” (Z. Bauman).
Forse, quest’anno, più che ricoprirci di cenere avremmo bisogno di rivestirci di consapevolezza o, meglio, quest’anno più che mai il rito delle ceneri assume un più forte carattere di verità.
Di che cosa abbiamo paura, in fondo? Della morte. Questo è ciò di cui abbiamo paura. Credevamo di poter dormire sonni tranquilli al riparo delle nostre case più che confortevoli e sicure e, invece, ci scopriamo analfabeti della capacità di fronteggiare l’ospite annunciato ma sempre inatteso che è sorella morte.
Quello che stiamo vivendo è un’autentica apocalisse non nel senso di catastrofe come di solito intendiamo questo vocabolo, ma di rivelazione di come va il mondo e la storia degli uomini.
Noi credenti, secondo la Parola di Gesù, siamo chiamati a discernere in ogni evento dei segni che rovesciano di colpo, sul cuore, la perenne domanda sul cosmo, su che cosa sia l’uomo, su che cosa sia la natura a volte così stupenda e a volte così crudele, su che cosa è la vita e che cosa è la morte.
Non basta accontentarsi della spiegazione scientifica del perché e del come un virus si sviluppi e aggredisca o meno. Una volta percorsi i sentieri della scienza, è ancora l’infinito territorio del mistero che ci chiede l’audace e tenace umiltà di esplorarlo, tanto lontana da quella protervia di chi si sente padrone del mondo, socraticamente sapendo di non sapere eppure sentendoci pensanti.
Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale. Tu ce l’hai questo antidoto? O basta semplicemente rifornire una dispensa per una eventuale quarantena?
Mi tornano alla mente i versi di Montale: “Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo”.
Il modo migliore per onorare chi ha perso la vita in questo imprevisto è proprio far sì che esso non passi invano nella nostra vita ma che smuova i nostri cuori da quel torpore che vorrebbe convincerci, una volta di più che “io fo parte per me stesso”.
Preghiera nel tempo della prova
Signore, Padre Santo,
tu che nulla disprezzi di quanto hai creato
e desideri che ogni uomo abbia la pienezza della vita,
guarda alla nostra fragilità che ci inclina a cedere.
Fa’ che il nostro cuore regga in quest’ora di prova.
Perdona la nostra incapacità a far memoria di quanto hai operato per noi.
Allontana da noi ogni male.
Se tu sei con noi chi potrà essere contro di noi?
In ogni contrarietà noi siamo più che vincitori
in virtù di colui che ci ha amati.
Facci comprendere che la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore.
Benedici gli sforzi di quanti si adoperano per la nostra incolumità:
illumina i ricercatori, dà forza a quanti si prendono cura dei malati,
concedi a tutti la gioia e la responsabilità di sentirsi gli uni custodi degli altri.
Dona la tua pace a chi hai chiamato a te,
allevia la pena di chi piange per la morte dei propri cari.
Fa’ che anche noi, come il tuo Figlio Gesù, possiamo passare in mezzo ai fratelli
sanando le ferite e promuovendo il bene.
Intercedano per noi Maria nostra Madre
e tutti i Santi i quali non hanno mai smarrito la certezza
che tutto concorre al bene per coloro che amano Dio.
Amen.