A un anno di distanza dalla morte del preside, ci ritroviamo attorno all’altare del Signore – la moglie, i familiari, i parenti, gli amici, gli ex alunni e gli estimatori – per accogliere ancora una volta la forza della sua testimonianza mentre suffraghiamo in questa S. Messa la sua anima benedetta e immortale. Ho iniziato …

A un anno di distanza dalla morte del preside, ci ritroviamo attorno all’altare del Signore – la moglie, i familiari, i parenti, gli amici, gli ex alunni e gli estimatori – per accogliere ancora una volta la forza della sua testimonianza mentre suffraghiamo in questa S. Messa la sua anima benedetta e immortale.

Ho iniziato a leggere con attenzione il piccolo volume omaggiatomi dal carissimo Mario Restaino il quale ha raccolto tre conferenze del preside facendole precedere dal Discorso da lui pronunciato in occasione del suo ottantesimo genetliaco nell’aula magna del Ligeo-Ginnasio “Quinto Orazio Flacco”.

In quell’intervento, il preside paragona il professore a colui che esercita come mestiere quello dell’incantatore: “i ragazzi vanno rapiti, vanno incantati”, così affermava. Nel leggere quel breve intervento, mi colpiva il fatto che il preside non abbia usato il vocabolo seduttore (se-ducere): l’educatore, il professore, il maestro, infatti, non deve condurre a sé ma deve mostrare l’oltre, deve lasciar intravvedere ciò che è altro rispetto al contingente. E può farlo solo se egli per primo è custode di uno sguardo più profondo e ulteriore. E il preside questo sguardo lo possedeva e lo alimentava prima ancora che con lo studio assiduo e la ricerca meticolosa, con la sua vita di fede come avemmo modo di ricordare in occasione del suo trigesimo.

Così, mentre io stesso mi lasciavo incantare dallo scritto che avevo tra le mani come immaginando il preside stesso mentre lo pronunciava e riandavo all’amabile incontro domenicale post missam, come per un lampo mi è sovvenuto il sogno dei dieci diamanti di don Bosco che Lello conosceva senz’altro appassionato com’era del compito educativo.

Di cosa si tratta? Nella notte tra il 10 e l’11 settembre 1881, don Bosco, durante gli esercizi spirituali, sogna un principe con un mantello trapuntato di diamanti: sul lato anteriore brillano cinque diamanti (due sul petto: fede, speranza e uno sul cuore, la carità, e due sulle spalle: lavoro e temperanza); sul lato posteriore altri cinque: obbedienza, povertà e castità e poi premio e digiuno.

“Questo sogno – annota don Bosco – mi durò quasi l’intera notte, e sul mattino mi trovai stremato di forze. Tuttavia pel timore di dimenticarmene mi sono levato in fretta e presi alcuni appunti”.

Perché ci interessa un simile episodio? Perché si ritrovano non poche assonanze con il compito educativo così come lo intendeva il preside.

La fede, la speranza e la carità sono le virtù, le qualità che più emergono nelle nostre relazioni.

La fede, infatti, oltre ad essere la risposta dell’uomo a Dio che si rivela, è la capacità di leggere la vita più in profondità, vuol dire lasciarsi interpellare dai volti e dagli incontri riconoscendo in essi una particolare interpellanza del Signore stesso. Non ci può essere compito educativo dove manca la fiducia nella vita e dove l’educazione non viene intesa come Michelangelo intendeva lo scolpire il marmo.

Un giorno fu chiesto a Michelangelo: “Maestro, come fai a tirar fuori dei bellissimi capolavori dal marmo? Raccontaci”. E Michelangelo rispose: “Non sono io che creo i capolavori; essi sono già nel marmo. Io tolgo via le parti in eccesso: il capolavoro è dentro”.

La speranza è riconoscere Dio all’opera nella vita di chi ci è affidato e intravvedere cosa potranno diventare quei timidi germogli di cui oggi ci si prende cura: è l’atteggiamento di chi riesce a tenere insieme il già e il non ancora, nella consapevolezza che, anche se non tutto andrà come forse desidereremmo, di certo tutto ha un senso (Havel).

La carità è restituire, mediante il servizio, l’amore che a nostra volta abbiamo ricevuto: il ragazzo che si scopre amato incondizionatamente, quando verrà la sua pienezza del tempo (Gal 4), sarà in grado di rimettere in circolo la cura che ha ricevuto gratuitamente. In tal senso, la riconoscenza più compiuta non è quella che restituisce un contraccambio a chi ci ha fatto un dono, ma quella che condivide con altri quanto a sua volta ha ricevuto.

“Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza” dirà di sé Gesù. Chi vive la passione educativa è di questo che è costituito segno e tramite. E Lello lo era di certo.

Poi il lavoro e la temperanza: da una parte l’operosità creativa e la dedizione piena al compito educativo che non ha nulla a che vedere con l’ansia da prestazione e dall’altra il senso della misura proprio di chi, consapevole dei suoi limiti, non cade vittima di quel delirio di onnipotenza che talvolta può far capolino in chi ha responsabilità educative.

A queste virtù, a questi atteggiamenti fanno risconto altre cinque qualità:

l’obbedienza intesa come capacità di convogliare energie e passioni al progetto di vita dei ragazzi, la povertà intesa come sobrietà e la castità intesa come disponibilità ad amare in modo gratuito e disinteressato.

“L’educazione è cosa del cuore”, affermerà don Bosco, “e solo Dio ne possiede le chiavi”.

A queste tre qualità si aggiungono, infine, le ultime due, il premio e il digiuno.

Il premio attiene alla disponibilità a differire il voler computare i risultati, a mettere in conto anche l’eventuale insuccesso: Si delectat magnitudo praemiorum, non deterreat multitudo laborum (Se vi attrae la grandezza dei Premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche). Il digiuno, invece, ha a che fare con la disponibilità a condividere del proprio (sia esso tempo o studio).

Se è vero come è vero quello che scriveva sant’Ignazio di Loyola e che cioè, “non è la quantità delle cose sapute che sazia, ma l‘accoglienza e il gusto che interiormente si prova”, non possiamo non riconoscere che il preside avesse proprio il gusto delle cose che sapeva. La sua non era la conoscenza dell’erudito: la sua sapienza, infatti, riusciva a dare sapore a lui anzitutto e a quanti hanno avuto la gioia di incontrarlo.