C’è un esodo da compiere, un guado da attraversare, una pasqua da vivere. E come tutti i passaggi che si rispettino, la traversata non è mai indolore: un vero e proprio travaglio accompagna e presiede ogni nuova nascita alla vita vera.

Ci sono sere che si vivono a fatica, con l’angoscia nel cuore e la crisi d’identità e di fede dietro l’angolo.

Ci sono sere in cui le esperienze positive vissute sembrano come essere cancellate: gli apostoli avevano appena assistito al segno dei pani di cui, pure, si erano nutriti, eppure sembra quasi che neppure un segno così evidente possa bastare come sostegno per quella traversata notturna. Pur avendo toccato con mano la forza della benedizione del Signore, la memoria è annebbiata.

Ci sono sere che misurano tutta la consistenza di certe nostre facili professioni di fede nate più sull’onda di entusiasmo che su quella di un reale coinvolgimento con il mistero santo di Dio.

Ci sono momenti in cui le nostre sole energie e la nostra preparazione non bastano: è buio, tutto sembra remare contro di noi e noi misuriamo una volta di più l’inconsistenza dei nostri strumenti. Ci si trova davvero in mare aperto, letteralmente in balia delle onde, allorquando l’unica prospettiva plausibile è lo sprofondare nelle acque. In un attimo è come se smarrissimo il senso stesso del nostro essere al mondo e del nostro esercitare un ministero nella Chiesa. La difficoltà del momento finisce per farci ripiegare sul piccolo cabotaggio dal momento che distoglie il nostro sguardo dall’orizzonte verso cui siamo incamminati. Il qui e ora appesantisce il nostro cuore tanto da farci credere che la vita si esaurisce nel contingente e tutto è ridotto all’istante: nostra unica preoccupazione è risolvere un assillo, far sì che la barca vada un tantino più oltre così da averla vinta sull’ostacolo.

Pur prefiggendoci determinati obiettivi, accade di ritrovarsi in un’impasse senza sbocco: ci sono destinazioni alle quali non si giunge da soli.

Ci sono momenti in cui sembra che Dio sia assente, per questo la paura della morte fa capolino con più forza: “… e Gesù non li aveva ancora raggiunti”. Il ritardo di Dio ci convince, una volta di più, che se non facciamo da soli non ne veniamo fuori. Inizia così l’arte dell’arrangiarsi, ossia del cercare soluzioni in base a criteri terra terra. Pur avendo assaporato la fecondità che viene dal fidarsi del Maestro, finiamo per aver paura allorquando il Maestro si rende presente. Altrove è scritto che credevano di vedere un fantasma.

“Sono io, non temete”.

La presenza del Signore, oltre al dono del rasserenamento, restituisce la consapevolezza della meta che il buio della notte e il mare agitato avevano fatto smarrire. Proprio quella presenza fa sì che si prenda coscienza di come a fare da ostacolo non siano anzitutto le condizioni esterne (il buio, il mare agitato e il forte vento) ma il nostro modo di orientarci nei problemi, ossia quell’incessante e patetico tentativo di cucire toppe su un vestito logoro. Guai, cioè, ad assolutizzare ciò che è solo di un momento. Guai a ridurre la grandezza dell’umano esistere al “particulare” dei nostri affari, delle nostre giornate, delle nostre lotte, delle nostre preoccupazioni. C’è qualcosa di più grande da cui non bisogna distogliere lo sguardo. Il senso della vita, infatti, risiede nel compimento che la attende e nella meta che la anima. Il senso della vita non risiede nell’inutile tentativo di mettere ogni sforzo per non smettere di remare. Siamo soliti pensare alla vita come a un insieme di eventi separati, quasi dei segmenti senza alcun nesso tra di loro. Il “sono io, non temete”, invece, ci restituisce la sapienza di leggere ogni istante in una luce che sfocia nell’eternità. Il buio, il mare agitato, il vento che soffia forte non sono incidenti di percorso che se non ci fossero sarebbe tanto di guadagnato. L’angoscia e il timore che proviamo in quei frangenti sono anch’essi aperti verso un approdo di luce e di vita.

Gesù si avvicina a ciascuno di noi proprio mentre siamo persi nei frammenti scomposti delle nostre giornate perché impariamo l’arte più difficile: quella di riuscire a trasformare l’acqua nella quale anneghiamo nella stessa in cui essere salvati. Ecco l’esodo da compiere, ma non da soli.

Gesù che cammina sulle acque è colui che è riuscito a trasformare l’acqua in strada. Cammina sulle acque chi non subisce gli eventi ma li riconosce, li assume e li attraversa. Cammina sulle acque chi sa che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio.

Prendere Gesù con noi: ecco la via d’uscita. La sua presenza fa sì che nulla di noi sia chiuso in se stesso, nulla vada perduto, tutto si dischiuda verso un orizzonte più grande, il dolore e il fallimento divengano le realtà in cui ci si apre a un di più di amore.

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Dal Vangelo secondo Giovanni 6,16-21

Venuta la sera, i discepoli di Gesù scesero al mare, salirono in barca e si avviarono verso l’altra riva del mare in direzione di Cafàrnao.
Era ormai buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti; il mare era agitato, perché soffiava un forte vento.
Dopo aver remato per circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Sono io, non abbiate paura!».
Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti.