Narratori di uno sguardo nuovo. Così li aveva pensati quando Gesù inviava i discepoli a due a due. Quello sguardo che li aveva riscattati alle loro occupazioni quotidiane rendendoli consapevoli di cosa ognuno di loro significasse per il Padre: benedetti… scelti… amati… prima della creazione del mondo. Li aveva chiamati perché stessero con lui, perché facessero esperienza di come erano guardati da Dio. Non era stato, forse, un modo particolare di essere guardati che aveva fatto scattare in loro qualcosa di nuovo rispetto al ritmo ordinario delle loro giornate? Tutto era cominciato a partire da uno sguardo.
Neanche il rifiuto di Nazaret era riuscito ad impedire la delicatezza e la discrezione di quello sguardo. Neppure l’abbandono o il tradimento dei discepoli impedirà a quello sguardo di manifestare tutta la predilezione verso di loro che sfocerà in quell’amico ripetuto al traditore nell’orto degli ulivi e in parole di perdono sulla croce: perdona loro perché non sanno quello che fanno. Neanche l’ostinazione di chi non vuol vedere avrebbe potuto arrestare la corsa del vangelo. Anzi, proprio quel rifiuto aveva fatto comprendere che altra doveva essere la meta verso cui indirizzare i passi. E così, con ancora viva nella memoria del cuore l’esperienza di non accoglienza, lo sguardo di benedizione sull’umanità non muta e Gesù rilancia la posta in gioco invitando i discepoli a una fede a piedi. Leggeri, liberi, non impediti.
Li manda a trasmettere gesti e parole che aiutino a leggere e interpretare il reale e ad attestare con la propria storia che il vangelo può essere motivo sufficiente di vita. Li manda a narrare uno sguardo nuovo. Li invia invitandoli a declinare la grammatica dell’umano.  Unico loro obiettivo trasformare in benedizione il mondo e la vita di tutti gli uomini. Inviati ad annunciare che un nuovo inizio è possibile, può cominciare qualcosa di nuovo. Inviati ad esorcizzare ogni messaggio o realtà scoraggiante se non addirittura disperante, attraverso una vicinanza nuova che deriva dal vangelo.
Che bello pensare l’evangelizzazione come la narrazione dello sguardo di Dio sull’uomo: sguardo benevolo, sguardo accogliente, sguardo di perdono, sguardo che riscatta ogni anelito di bene, sguardo che mette in luce i timidi germogli di speranza che via via fioriscono lungo il cammino. Mi ritrovo a pensare a quei primi giorni di evangelizzazione, ai primi passi di una comunità di discepoli che, senza indugio, sentivano la responsabilità di saldare il debito dello sguardo. Discepoli che partono all’insegna della fiducia in colui che li ha inviati e nella potenza del messaggio di cui sono portatori.
Narratori di uno sguardo che mai sacrifica l’uomo a una istituzione: prima l’uomo, poi il sabato. Sguardo sempre attento non a ciò che c’è stato ma al bene possibile, tanto che la donna di Samaria diventerà la testimone dell’identità del Messia, la donna pagana modello di fede per Israele, la vedova al tempio figura di chi dona tutto di sé. Persone e situazioni riscattate da uno sguardo altro, quello del Signore Gesù. E penso a tante nostre situazioni che avrebbero bisogno solo di uno sguardo diverso perché la vita possa fiorire e invece tante, troppe volte è uno sguardo impietrito che mortifica e paralizza.
Fede a piedi: non appesantiti da bagagli inutili che impediscono di stare al passo finendo per diventare sedentari e conservatori, incapaci di riconoscere Dio all’opera, assolutizzando l’esperienza di accoglienza di una casa da cui invece bisogna imparare ad uscire.
Partono i discepoli lontani da ogni potere se non quello di restituire voglia di vivere. Senza casa se non quella di chi apre loro un credito di fiducia. Senza nulla per indicare che solo chi è in grado di lasciarsi alle spalle il vecchio modo di guardare la vita, le proprie sicurezze e le abitudini dell’ambiente da cui proviene, è in grado di muoversi. Quando questo non accade c’è colonizzazione religiosa ma non annuncio evangelico. Perché mai non accade oggi l’annuncio evangelico? Forse perché non abbiamo ancora acconsentito a che la parola del vangelo attraversi il nostro cuore prima che mettere in moto i nostri passi. A volte i passi si muovono ma non nella fedeltà alle indicazioni di Gesù.
Partono invitando tutti alla conversione. Quale conversione? Non anzitutto quella di tipo morale così da assumere un comportamento retto, quanto piuttosto quella che porta a credere che Dio ci abbia raggiunto attraverso l’umanità del Signore Gesù. Credere che Dio è in mezzo a noi e lo è nella forma più ordinaria e normale. Credere che il Regno di Dio si compie nella misura in cui si fa spazio ad una esistenza pienamente umana di cui la liberazione dai demoni e la guarigione dei malati sono segno.
Partono a due a due: la vita insieme, l’amore attestato tra gli stessi discepoli, questa è già evangelizzazione. La missione, infatti, non consiste nel fare delle attività ma nella capacità di vivere relazioni.

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Dal Vangelo secondo Marco 6,7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.