Vangelo da Dio, non da uomini. Così verrebbe spontaneo obiettare a una pagina come quella che la liturgia odierna consegna al nostro andare.
La prima reazione è appunto lo sconcerto. Non solo quello dei servi della prima ora: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi”. Ma anche il nostro sconcerto: non è giusto pagare allo stesso modo chi ha lavorato un’ora soltanto.
Se Dio fosse ovvio e se il nostro modo di pensare fosse il suo perché venire di nuovo ad ascoltare le parole del Libro santo? Sarebbero sufficienti i nostri pensieri e i nostri libri. L’ovvietà avrebbe voluto che il padrone dicesse: bene, un denaro ai primi, e poi via via a scalare. Questo è ciò che è ovvio. Ma noi siamo qui non per sentire cose ovvie, ma cose vere.
Allora, anzitutto, non attenuiamo lo sconcerto ma stiamoci a contatto. E cosa scopriamo? Che la parabola non intende perseguire i binari della giustizia umana ma segnalare una logica diversa, quella di Dio. Guai allora a voler riportare continuamente Dio nei nostri binari. La logica di Dio va oltre, non nel senso che è contro la giustizia, ma non si lascia imprigionare negli abiti angusti della nostra giustizia, basata sul criterio della proporzionalità.
Gli operai della prima ora si lamentano non per la loro paga  scarsa ma per ciò che era toccato agli altri. La vita racchiusa nella rigida connessione lavoro-denaro. Dio è oltre questo orizzonte della vita impoverito perché abitato da un’altra anima, quella della sproporzione. L’amore è eccessivo, è sproporzione, se no non è amore. Al più è un contratto che è basato appunto sulla logica della proporzione: a tanto, tanto.
Dio è oltre il contratto. E noi conosciamo il Dio di Gesù Cristo solo nell’oltre della bontà, della gratuità, della sproporzione dell’amore. Se rimaniamo al di qua, nella rigida proporzionalità, conosciamo un nostro Dio, ma costruito a nostra immagine e somiglianza.
La vita cristiana non si riduce ad una sorta di scambio commerciale, di conteggio dei meriti e demeriti, ma si fonda su un Dio che ci ha usato grazia, misericordia. Quanto il padrone fa nei confronti di quelli dell’ultima ora, dovrebbe ricordare ai primi che l’averli invitati a lavorare nella sua vigna è un segno del suo amore e della sua attenzione anche verso di loro, perché altrimenti sarebbero rimasti disoccupati. “Apri il nostro cuore… perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino”, così ci fa pregare la liturgia.
E allora non impoveriamo Dio. Non impoveriamolo della imprevedibilità del suo amore, ma invece incantiamoci a contemplare la sua sproporzione, il suo eccesso nell’amare anche me che, poco o tanto, appartengo anch’io alla categoria degli operai dell’undicesima ora. E fortunatamente Dio con me non usa il criterio della proporzionalità.
Se questo è vero, non posso non gioire del fatto che nessuno è escluso, nessuno è confinato nell’angoscia di sentirsi inutile, gioire nel vedere che il bene si va dilatando.
Se Dio è così con me, io sono chiamato a essere come lui: come il Padre vostro che è nei cieli. Questa è la vita cristiana. Essere come il Padre. Avere il suo sguardo, il suo modo di vedere le cose. Ho gli occhi di Dio se so godere ogni volta che a un fratello, a un amico, a un collega è riconosciuta la mia stessa dignità.
Non posso allora non chiedermi: io che immagine rimando? Sono l’uomo della rigida proporzione? Ci sono nella mia vita i segni dell’eccesso, della sproporzione dell’amore? Riesco ad andare oltre? O mi ritrovo a lamentarmi per quello che ricevono gli altri?
I servi della prima ora si lamentano perché gli altri sono stati fatti uguali a loro, come se il valore di quello che hanno tra le mani dipendesse dal fatto che gli altri non ce l’hanno. L’invidia da parte degli altri diventa il criterio per comprendere che valgo qualcosa ai loro occhi. Ben misero, un simile modo di vedere. Alla fine è un problema di fraternità: “oppure tu sei invidioso, perché io sono buono?”. L’annullamento delle distanze, dei gradi di merito provoca disagio. L’interrogativo del padrone lascia la parabola sospesa, in attesa di risposta. Guai, però, a dimenticare che, nella vita di fede, la ricompensa è sempre gratuita, mai meritata.

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Dal Vangelo secondo Matteo (20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.
Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».