Introduzione

“Padre, siano una sola cosa, come noi” (Gv 17,12).

Questo era il desiderio di Gesù alla vigilia della sua passione, desiderio trasformato in preghiera e sigillato con l’offerta della sua stessa esistenza. L’unità dei suoi non era finalizzata a un miglior dispiegamento delle energie come quando bisogna fare fronte comune per affrontare un nemico (non corrisponde, infatti, alla logica del “tutti per uno” dei moschettieri) ma alla rivelazione di ciò che intercorre in seno alla stessa Trinità.

“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 12,35). Nella Chiesa sacramento di Cristo il primo e più efficace sacramento è proprio la comunione dei suoi membri, tanto più in un mondo sempre più diviso e pieno di tensioni e sopraffazioni.

Pensiamo alla molteplicità di gruppi, associazioni e movimenti che lo Spirito ha suscitato nella Chiesa. È dietro l’angolo la tentazione di chiudersi ciascuno nella propria prospettiva, ignorando quanto non fa parte del proprio gruppo se non addirittura squalificando gli appartenenti ad altri gruppi o chi non aderisce ad alcun gruppo particolare. Questo è dannoso non solo per l’utilità comune della Chiesa ma anche per il proprio essere cristiani. Prima di essere di qualsiasi maestro, infatti, si è tutti di Cristo, tutti redenti dalla sua Croce e tutti battezzati nell’unico Spirito.

“Vedi come si amano”, questa era la confessione dei pagani che si misuravano con la “differenza cristiana” delle prime comunità.

Elogio della Diversità

La 1Cor può essere definita, tra le altre cose, come una sorta di manifesto contro l’intolleranza, un elogio della diversità.

La comunità di Corinto è una comunità di entusiasti, di gente che ha ricevuto doni particolari. Aveva preso sul serio l’annuncio della Parola dando libero sfogo alla fantasia e alla creatività. Proprio la creatività genera diversità al punto da litigare rivendicando specifiche appartenenze: io sono di Pietro, io sono di Paolo, io di Apollo. Storie di ieri, storie di sempre.

Per questo, Paolo farà l’encomio alla carità invitando i Corinti a diventare ciò che egli mostra loro mentre annuncia quello che Gesù Cristo ha compiuto.

Rivolgendosi alla comunità di Corinto, Paolo si scaglia contro il peccato fondamentale di ogni convivenza umana: la paura del diverso, la non accettazione dell’altro. Un peccato che tutti quanti noi sappiamo essere alla base delle gravi lacerazioni umane, come la cronaca ci dettaglia abbondantemente in questi giorni, proprio a pochi Km da noi. Senza andare oltre l’uscio di casa, però, pensiamo ai tanti sentimenti di rifiuto del diverso tra noi, sentimenti che nel nostro cuore sono tutt’altro che assenti.

E il meccanismo di fuga dalla diversità è sempre lo stesso. Accettiamo chi è come noi perché la sua presenza ci rassicura, ci conferma, ci dà un senso di identità. Al contrario, invece, respingiamo o emarginiamo istintivamente, arriviamo persino a sopprimere quanti sono diversi – per lingua, costumi, cultura – perché ci disturbano, ci inquietano, ci scomodano, ci mettono in questione. Giocano qui anche le differenze di classe sociale, di partito, di ideologie e, addirittura, le diversità religiose e confessionali.

La Scrittura registra sin da subito il rapporto faticoso e conflittuale che sfocerà nell’eliminazione di Abele da parte di Caino. “Il male è accovacciato alla tua porta, ma tu dominalo” (Gen 4,7), cosa che Caino non riuscì a fare.

Paolo vuole esorcizzare la paura che opera all’interno della comunità di Corinto, dividendola in fazioni e gruppi che si rifanno a leaders carismatici e si scomunicano a vicenda o si esaltano dei propri doni dello Spirito opponendoli a quelli altrui.

Diversi doni, un solo Spirito

Il problema dei vari doni elargiti dallo Spirito è per Paolo l’occasione per mostrare la Chiesa come luogo di comunione all’interno della quale è l’amore ad aver la meglio. Per questo egli fissa tre criteri per discernere quali doni vengano dallo Spirito quali no:

  • la fede in Cristo, riconoscere che “Gesù è Signore” (12,3). In nessun altro c’è salvezza: egli è il Signore del mondo e della storia;
  • l’utilità comune dei carismi (12,7). Il carisma non è motivo di esibizione personale, una specie di misticismo spettacolare “secondo l’impulso del momento” (12,2), ma è un dono a favore della costruzione della Chiesa. Tanto il riconoscere che Gesù è Signore quanto il permanere a servizio della comunità vengono dall’unico e medesimo Spirito;
  • la carità: l’unità e la diversità dei doni sono parte integrante della comunità, ma l’armonia non è né pacifica né scontata, tanto da compromettere l’unità. Per superare l’esibizionismo personale, Paolo mostra “la via migliore” (1Cor 12,31): la carità, che è l’amore fino al dono di sé. Solo l’amore è la strada che permette ai carismi di raggiungere il loro scopo: l’utilità per l’edificazione della comunità.

Cosa stava accadendo a Corinto? Durante alcuni momenti comunitari di preghiera qualcuno andava come in estasi dando prova di un dono particolare, la glossolalia, una forma di preghiera espressa con voci emotivamente cariche ma non comprensibili. Il beneficiario di questo dono era ritenuto come un essere divinizzato perché quasi si distaccava dalla sua dimensione creaturale, corporea. Quando accadeva qualcosa del genere, com’è ovvio, chi assisteva puntava l’attenzione sulla dimensione spettacolare di un tale fenomeno e anche sulla gratificazione psicologica del beneficiario.

Ora, però, siccome non tutti i membri della comunità godevano del dono dell’estasi e della glossolalia, ecco che nasceva una vera e propria frattura tra credenti esaltati e autocompiaciuti, affetti da un vero e proprio complesso di superiorità, e credenti privi di esperienze estatiche e perciò vittime di un complesso di inferiorità.

Ecco perché Paolo è costretto ad affermare che a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito il quale dispensa ora doni di una certa portata ora doni più umili che non per questo sono meno utili alla comunità (non mi verrà chiesto perché non sono stato Mosè, cfr. “Il cammino dell’uomo”, di M. Buber).

Il problema, purtroppo, non nasceva soltanto perché chi assisteva si sentiva da meno ma perché i beneficiari di certi doni li vivevano in modo individualistico ed egocentrico. A che serviva esibirsi durante le assemblee comunitari se questo non aveva nessun beneficio per gli altri che, invece, erano invidiosi? Non c’era alcuna edificazione della comunità ma solo una forma di autoesaltazione.

Ecco perché Paolo farà l’encomio della carità. Il problema, infatti, non è tanto questo o quel dono partecipato all’uno o all’altro quanto chiarire chi è il credente all’interno di una determinata comunità.

Il criterio per distinguere ciò che viene dallo Spirito o meno è uno solo, Gesù Cristo. Non ha alcuna giustificazione l’esibizionismo di alcuni dal momento che tutto è grazia e dono immeritato. Cos’hai fatto tu per riceverlo? Poiché si tratta di doni elargiti dall’unico Spirito è necessario non perdere di vista ciò che il donatore intende perseguire. Tutto ciò che lo Spirito suscita, tutto ciò che dona è solo in vista dell’utilità comune che è l’edificazione della comunità. Per questo Paolo parla di ministero e di operazione, perché si è servi di qualcuno non di se stessi o per se stessi.

L’unico Signore dà doni diversi e ogni dono deve capirsi in funzione di un insieme e della totalità.

Di più: proprio l’unità/unicità dello Spirito è la fonte della diversità e questa non è dispersione. Compito di ognuno, pertanto, è come esprimere la multiforme azione dell’unico Spirito.

Nessuno può dire di non aver ricevuto nulla: a tutti è data una particolare manifestazione per l’utilità (v. 7). Nessuno possiede tutti i doni e nessuno non ne possiede alcuno.

Quali sono questi doni dati per edificare la comunità? Paolo ne elenca alcuni soltanto.

  • la parola di saggezza, ossia la capacità di far gustare le cose e di trasmettere l’insegnamento in modo giusto;
  • il linguaggio di conoscenza, vale a dire un approfondimento scientifico, teologico, la capacità di intuire, di comprendere;
  • la fede qui è da intendere come la forza che si manifesta in situazioni estremamente difficili;
  • c’è poi il dono delle guarigioni, che indica sia la capacità di superare la malattia che quella di far guarire, di aiutare un altro a superare la malattia;
  • il potere dei miracoli indica ogni manifestazione forte, energica, di impegno, di organizzazione, di servizio;
  • la profezia non è la previsione del futuro, ma l’interpretazione del senso, cioè la capacità di leggere dentro le persone, dentro gli eventi per cogliere il significato di ciò che sta capitando;
  • discernere gli spiriti indica la capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è;
  • la varietà delle lingue, cioè la glossolalia, e l’interpretazione delle lingue: vale a dire la capacità razionale di spiegare questi suoni inarticolati. Non è un caso che proprio il dono delle lingue venga messo per ultimo.

Dall’autoaffermazione al dono di sé

La collaborazione tra i credenti non conduce solo all’armonia comunitaria e alla concordia tra i fedeli, ma crea una realtà totalmente nuova, che è il frutto della presenza e dell’azione dello Spirito del Risorto. L’unità della Chiesa non è la somma di singole persone, che hanno le stesse idee e condividono il medesimo ideale. Se così fosse, sarebbe una realtà unicamente orizzontale, una comunità umana come altre. La Chiesa è il corpo di Cristo e i doni che lo Spirito concede ai singoli sono finalizzati a mostrare nella storia la presenza del Risorto.

Poiché il nostro Dio, a differenza degli idoli afoni, è un Dio che parla e lo fa attraverso i suoi discepoli, ecco che questi sono muniti di operazioni diverse in vista dell’evangelizzazione per l’opera dell’unico Spirito.

I Corinti di allora e quelli di sempre devono ricordare che, nella vita spirituale, nella vita di fede, c’è un passaggio mai del tutto compiuto: dall’autoaffermazione al dono di sé. Tutto ciò di cui la comunità dispone non è in vista di una sorta di progetto personale finalizzato all’autoesaltazione.

L’apologo del corpo

Il nostro brano richiama in qualche modo il celebre apologo di Menenio Agrippa (V sec. a.C.) che cercava di giustificare le differenti classi e funzioni per un armonico sviluppo della società. “Come le membra e lo stomaco sono reciprocamente legati da comuni interessi, così patrizi e plebei devono riconoscere la loro vicendevole dipendenza”.

Ma quell’immagine aveva il suo rovescio perché giustificava le prevaricazioni e gli squilibri sociali. Il cristianesimo, invece, proprio con san Paolo, proclamerà che “non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

La Chiesa, afferma l’apostolo, ha la stessa struttura del corpo umano: esso è composto da elementi diversi che, tuttavia, sono funzionali al bene dell’intero corpo. Proprio la diversità manifesta la funzionalità del corpo e la capacità di fronteggiare le varie situazioni della vita.

L’azione dello Spirito genera un corpo che è segno di Cristo in quanto appartiene a Lui. Un giorno, quando siamo stati immersi nello Spirito, siamo stati trasformati da Lui. la condizione per tenere viva la grazia di quel rinnovamento è l’abbeverarci ancora a questa fonte che sazia ogni desiderio e purifica ogni debolezza.

La Chiesa si edifica non perché compie gli stessi gesti ma perché si lascia plasmare dall’unico Spirito. Tutte le altre operazioni (pensiamo all’uniformità dei gesti nella liturgia) che pure mettiamo in atto per esprimere unità tra noi, hanno le ore contate se non nascono dall’unico agente che è lo Spirito Santo. Solo lo Spirito fa sì che tutto ciò che di per sé crea barriere e genera conflitti nella società umana (si pensi alla distinzione etnico-culturale: giudei o greci o quella sociale: schiavi o liberi), venga trasformato in una unità organica chiamata ad essere segno di Cristo nella storia. Non si tratta di creare una scala gerarchica fra le parti del corpo: il loro valore, infatti, si dispiega solo nella compresenza, nel fatto che interagendo lavorano insieme per la persona. L’occhio non guarda per sé come l’orecchio non sente per sé.

La comunità che i cristiani sono chiamati a costruire nel mondo non è un semplice intreccio di relazioni più o meno tolleranti. Paolo parla di corpo di Cristo: è presupposto, cioè, un esplicito radicarsi in Gesù Cristo, un inserirsi in un organismo vivo qual è la persona di Gesù.

Il corpo non è formato da un membro solo

Le singole membra del corpo non sono il corpo, ma il corpo non sarebbe tale se ne mancasse anche uno solo di essi. L’armonia delle membra è stata voluta da Dio stesso. La chiave di tutto è proprio al v. 18 quando Paolo afferma: “come egli ha voluto”. C’è un disegno della benevolenza divina al quale rifarci continuamente.

Il corpo non solo ha molte membra ma è molte membra (avere dei fratelli o essere fratelli?). Appartenere al corpo significa essere e fare corpo (molto spesso c’è uno spirito di corpo molto più accentuato tra associazioni lavorative che non nel Corpo di Cristo che è la Chiesa).

Paolo inscena quindi una sorta di drammatizzazione immaginando un dibattito nel quale alcune membra rivendicano una propria impossibile autonomia: “Non ho bisogno di te/di voi”. Dio, piuttosto, ha disposto che proprio le membra più deboli fossero le più necessarie. Sullo sfondo si intravedono le tensioni all’interno della comunità di Corinto.

Quale rapporto deve esistere tra le diverse membra? L’apostolo risponde a questa domanda attraverso il vocabolo “bisogno”: ciascuno deve riconoscere di aver bisogno dell’altro e, nello stesso tempo, deve essere disponibile ad andare incontro al bisogno dell’altro.

Come si esprime questo equilibrio? Paolo esemplifica:

  • protezione delle membra che meritano più attenzione e rispetto;
  • necessità dell’aiuto reciproco;
  • compartecipazione e solidarietà nelle vicende che riguardano ciascuno;
  • consapevolezza che senza l’altro io non sono.

In vista della missione, lo Spirito esprime una diversificazione operativa con la creatività che gli è propria suscitando doni diversi: ogni dono è allo stesso tempo essenziale e non sufficiente ad esaurire la personalità del Cristo. Il fatto che Dio stesso abbia mischiato/unito (v. 24) tale collaborazione esclude l’eventualità di cammini solitari e autonomi che non portano ad altro se non alla divisione (v. 25).

Paolo parla poi del debole, asthenes. Chi è? È colui che è scandalizzato e mortificato dalla contro testimonianza di chi si ritiene forte (ne ha parlato nei capp. 8-10 a proposito delle carni immolate agli idoli). Se è vero che il più debole ha bisogno del più forte, è vero anche il contrario: infatti, proprio il rispetto riservato ai deboli è ciò che onora e nobilita anche i forti.

27 Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.

Dopo aver parlato della metafora del corpo, Paolo fa una affermazione di identità: i Corinzi sono corpo di Cristo e sue membra. Proprio per questo, tutto quanto illustrato a proposito del corpo umano, a maggior ragione vale per i battezzati.

Ognuno secondo la propria parte: qual è la mia?

L’armonia che Dio ha costituito nel corpo umano è la stessa che ha creato nella Chiesa articolandola in varie membra, con diversi doni e ministeri. Il fine non è l’uniformità ma una complessità organica determinata dalla fantasia dello Spirito.

Abbiamo gli apostoli, cioè coloro che pongono le basi della vita di fede, poi i profeti, cioè coloro che proferiscono le parole dello Spirito, poi i maestri, cioè gli interpreti e i catechisti della Parola, coloro che fanno miracoli e coloro che operano guarigioni, coloro che hanno il dono dell’assistenza e quelli che hanno il dono del governo, infine coloro che hanno il dono di parlare e interpretare le lingue.

Paolo conclude, poi, con sette domande che evidenziano il rischio di monopolizzare o appiattire i vari doni spirituali

Ma il modo per diventare ragguardevoli nella Chiesa non è l’esercizio di questo o quell’altro ministero o essere depositario di un dono invece di un altro. C’è un unico modo ed è la carità, la via migliore di tutte.

La carità è la “via”, quella via che porta all’edificazione della comunità e che i Corinzi stanno abbandonando a favore di una esaltazione privatistica di alcuni doni speciali.

C’è un carisma che dobbiamo avere tutti, che è la via migliore, che è l’amore verso Dio e verso gli altri. Per quanto riguarda il resto ognuno sia quel che è e accetti l’altro così com’è.

Un solo corpo

È significativo che, nel cuore di ogni preghiera eucaristica, la Chiesa ci faccia pregare invocando l’azione dello Spirito “perché diventiamo un solo corpo e un solo spirito” (Preghiera Euc. III), quasi a non voler dare per acquisita l’esperienza della comunione tra di noi.  Quello che noi siamo come Chiesa non è il risultato soltanto dell’ingegno umano o semplice accumulo delle competenze di ognuno, ma è azione dello Spirito. Si tratta, perciò, di non opporgli resistenza.

Viviamo in un clima di individualismo esasperato e di conseguente solitudine. Rivendichiamo autonomia e privacy in ogni ambito, non ci sentiamo o, addirittura, non vogliamo più essere parte di niente e di nessuno.

La paura caratterizza non poche volte i rapporti tra noi. È possibile uscirne? E come? Paolo suggerisce che è possibile solo se superiamo il convincimento che il bisogno dell’altro sia un impedimento alla realizzazione di noi stessi. Le diversità non sono solo frutto di un capriccio umano ma sono volontà di Dio. È possibile uscirne solo se la diversità tra me e l’altro non diventa diffidenza ma relazione.

Quando la Scrittura narra le origini dell’uomo, la relazione tra le persone è un costitutivo fondamentale: Dio non crea soltanto la persona ma anche la relazione tra le persone. L’altro non è un incidente di percorso o uno che se non ci fosse sarebbe meglio. L’altro è una presenza inevitabile, è una pro-vocazione, l’aiuto che mi sta di fronte: sta a te scegliere se abbracciarlo come fratello o respingerlo come una minaccia. Evitare gli eventi o offrirsi agli eventi, secondo la bella espressione del teologo francese Maurice Bellet?

A ragione il filosofo J. Guitton scriveva che “in mancanza di un amore comune ci accontentiamo (e nutriamo, aggiungerei) di una paura comune”. Dove nasce la paura se non nella incapacità a saper integrare le differenze? Quando l’uomo perde la sua somiglianza con Dio finisce per assurgere a paradigma autonomo di umanità e l’altro è accolto solo se riesce a soddisfare il proprio bisogno.

“Fuggire dall’altro è fuggire da me stesso” (M. Buber).

Come si costruisce una comunità?

  1. Creare legami positivi, ossia sviluppare la capacità di prendersi cura dell’altro in un clima di gratuità;
  2. generare speranza: la capacità dell’uomo maturo che invece di cercare soluzioni magiche, affronta la vita con la capacità di stare al pezzo, attraverso il lavoro assiduo e l’impegno cordiale, utilizzando per questo tutto di se stesso (mente, cuore, sentimenti, volontà). Per fare questo è necessario abbandonare le nostre fantasie o i nostri discorsi deliranti, come pure le nostre lamentele o nostalgie; vincere la paura e accettare di camminare anche nella fatica e nel dubbio, cercando di canalizzare le nostre energie migliori verso un progetto di vita;
  3. circoscrivere il dolore e accogliere la vita. Capita sovente che l’altro non soddisfi le mie aspettative; qualche volta un progetto su cui avevamo puntato fallisce. La maturità di una comunità si misura dalla sua capacità di attraversare queste situazioni di morte con maturità. Avere un perché nella vita ci aiuta certamente a trovare il come sopportare un momento di prova o di fatica. Ma noi ce l’abbiamo ancora un perché?

Dall’Io al Noi

Tutta la nostra esistenza è chiamata a trasformarsi in sacramento della presenza di Cristo. Come?

Teoricamente tutti riconosciamo di essere chiamati a vivere la sequela del Signore Gesù come comunità. Tuttavia, la realtà quotidiana è lì a testimoniare la necessità di un cammino di conversione: pur riconoscendo il primato di Dio nella nostra vita e l’importanza dei fratelli nel realizzare la nostra vocazione, di fatto non facciamo fatica a riconoscere tratti egocentrici.

Consegno a voi e a me tre linee portanti di carattere antropologico, che ci aiutano a comprendere meglio il significato e la portata della comunione fraterna.

Valorizzazione dell’umano

Una di queste linee è la valorizzazione dell’umano. Per essere fratelli e sorelle, è necessario anzitutto essere uomini e donne veri. Occorre optare decisamente per l’incremento di certi valori umani che stanno alla base di sane e profonde relazioni fraterne:

  • lo spirito di familiarità e di reciproca amicizia, cioè dei rapporti che partano da un affetto sincero e non bollati da determinati atteggiamenti sociali stereotipi;
  • la cortesia, che nasce dalla convinzione della dignità della persona del fratello, nel quale è presente lo Spirito di Dio, e che porta a prevenirsi nella mutua carità;
  • il senso umoristico, la «giocondità dello spirito», segno evidente che nella persona c’è un equilibrio interiore, senza complessi né repressioni;
  • la prontezza d’animo nel prestarsi servizi reciproci con tutta gratuità, senza esigere contraccambio;
  • il rallegrarsi sinceramente per i risultati dei fratelli, cosa che rivela una psiche sana, senza invidie né rancori.

Corresponsabilità

La corresponsabilità (seconda linea) è l’azione responsabile di tutti, secondo la propria identità, il proprio ruolo e le proprie capacità, in vista della realizzazione del progetto evangelico di vita. Essa nasce dal valore che ogni fratello ha nella comunità. In base a ciò, ogni membro della comunità deve non solo rispondere alla chiamata ricevuta, ma anche collaborare perché ogni fratello sia fedele nella sua risposta. La corresponsabilità favorisce una interdipendenza e una obbedienza reciproca.

Reciprocità

Si tratta del ministero della reciprocità (terza linea), in cui si conosce e si è conosciuti, si perdona e si è perdonati, si guida e si è guidati, si ama e si è amati, si aiuta e si è aiutati. Essa nasce dalla consapevolezza di essere “fratelli tutti” e dalla consapevolezza che il fratello vale per ciò che è e non per ciò che fa o che ha. Essa tende a creare relazioni primarie di vera amicizia a livello orizzontale, e non a livello funzionale.

Qual è allora la via migliore?

Amare Dio con tutto il cuore e gli altri con il cuore di Dio.

  1. Come considero la diversità e come la affronto, a livello relazionale, culturale, ecclesiale: sospetto? paura? indifferenza? difesa? conflitto? Oppure: apprezzamento? Valorizzazione? Interesse? Volontà di conoscere e di interagire?
  2. Carismi e doni differenti nella comunità ecclesiale: so riconoscerli e apprezzarli come doni ricevuti e valorizzarli come risorsa, in spirito di autentica edificazione dell’unità e della comunione?
  3. Ciascuno di noi è un dono e ha dei doni che sono tali se vissuti nella logica del bene di tutti nella ricerca dell’unità: quando, come, perché capita che i carismi altrui vengano equivocati o diventino causa di possibili divisioni e conflitti?

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Dalle Fonti Francescane 1782

“E diceva che sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la vita e le attitudini dei seguenti santi frati: la fede di Bernardo, che la ebbe perfetta insieme con l’amore della povertà; la semplicità e la purità di Leone, che rifulse veramente di santissima purità, la cortesia di Angelo, che fu il primo cavaliere entrato nell’Ordine e fu adorno di ogni gentilezza e bontà, l’aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente elevata nella contemplazione che ebbe Egidio fino alla più alta perfezione; la virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spirito unito al Signore; la pazienza di Ginepro, che giunse a uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria volontà e con l’ardente desiderio d’imitare Cristo seguendo la via della croce; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Lodi, che a quel tempo sorpassò per vigoria tutti gli uomini; la carità di Ruggero, la cui vita e comportamento erano ardenti di amore, la santa inquietudine di Lucido, che, sempre all’erta, quasi non voleva dimorare in un luogo più di un mese, ma quando vi si stava affezionando, subito se ne allontanava, dicendo: Non abbiamo dimora stabile quaggiù, ma in cielo”.