Premessa

L’episodio della Trasfigurazione è un mistero che ci richiama Francesco sul monte della Verna. Francesco lì raggiunge l’immedesimazione conformativa al mistero di Cristo (VC 16). Il monte della Trasfigurazione ci ricorda il monte della Verna dove Francesco conosce, per esperienza spirituale e fisica, il mistero dell’esodo pasquale di Gesù e ne viene segnato, così come i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni (cfr. 2Pt 1,16-18).

Contesto

Il capitolo 9 comincia con la prima esperienza di ministero dei discepoli: andare ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi. Dopo questa esperienza i discepoli ritornano, raccontano a Gesù ciò che hanno fatto e Gesù li chiama in un luogo solitario; la gente però li segue, la solitudine è interrotta e Gesù rimanda i discepoli ad un’altra forma di ministero, che è immagine del ministero eucaristico (la prima era immagine del ministero dell’annuncio): distribuire il pane alla folla.

Dopo queste due esperienze, i discepoli vengono introdotti al mistero di Gesù: “Chi sono io secondo la gente?”, e “voi, chi dite che io sia?” (vv. 18-20). In questa domanda e nelle risposte dapprima approssimative e via via sempre più complete sulla persona di Gesù, avviene il passaggio dal ministero all’incontro vero e proprio con il mistero di Gesù. I discepoli vanno educati a comprendere ciò che hanno pronunciato con la bocca. Il Cristo di Dio è, per Pietro, il Figlio del Dio forte, potente, invincibile, insuperabile, e perciò non deve soffrire ed essere ucciso. Gli occorre, come occorre a tutti noi, compiere un passo avanti nella comprensione del Figlio. Forse tutti noi siamo un po’ come Pietro che, secondo quanto riferito da Mt 16, dice al Signore: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”, e soprattutto: “Dio me ne scampi, Signore, questo non lo vorrei mai per me!”.

Testo

Il racconto della Trasfigurazione, nel contesto del capitolo 9, è un brano chiave, ancora più importante della professione di Pietro: “Tu sei il Cristo di Dio”.

Il brano può essere diviso in sei parti:

– le circostanze in cui avviene la rivelazione del mistero di Gesù: otto giorni dopo i discorsi su chi è Gesù e sulla necessità che il Figlio dell’uomo passi per la sofferenza, di conseguenza sulla necessità che chi voglia andare dietro a lui prenda la sua croce. Si tratta di discorsi che hanno cominciato a coinvolgere il cuore dei discepoli, a penetrare in loro e forse anche a turbarli. Otto giorni dopo, Gesù      salì sul monte a pregare;

– il fatto: “il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”. Lc, non usa il termine “metamorfosi” o “trasfigurazione” a differenza degli altri sinottici: egli parla di cambiamento del volto;

– ci sono due accompagnatori misteriosi, Mosè ed Elia, che “parlano della sua dipartita, che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”;

– le reazioni dei discepoli sono progressive e varie: l’oppressione del sonno, la fatica, il disgusto, la ripugnanza ma anche la forza di restare svegli e la capacità di vedere, nel dormiveglia forzato, la gloria, i due uomini. Al vedere la gloria avviene il passaggio dalla pesantezza all’entusiasmo: “E’ bello per noi stare qui”. “Facciamo tre tende”: è la pretesa di fermare il tempo, di rendere permanente il transitorio.  All’apparire della nube, ricompare anche la paura;

– v. 35, la rivelazione della nube: “Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo”. E’ il punto culminante: la proclamazione di Gesù come Figlio. Tutto il resto fa da contorno, per farci capire la risposta alla domanda formulata al v. 18: “Chi sono io?”. L’affermazione di Pietro non basta: “Tu sei il Cristo di Dio”, nemmeno se vi aggiungiamo le parole stesse di Gesù: io sono il Figlio dell’uomo che deve soffrire. La risposta vera è: “questi è il Figlio mio” e perciò “ascoltatelo” per essere anche voi figli;

– il sesto momento del brano è la conclusione solitaria e silenziosa: Gesù resta solo e i discepoli tacciono. Il mistero è custodito nel cuore, mentre la necessità di questa trasformazione per essere come il Figlio entra a poco a poco negli apostoli con non poche fatiche e contrasti.

Meditatio

Ecco allora che Gesù permette loro di tirare un respiro di sollievo, li invita ad andare al di là della scorza, al di là della cose per scoprire che oltre ogni cosa c’è la Risurrezione. Il Maestro li porta su un monte dove il suo volto si trasforma, diventa altro. La Trasfigurazione, per i discepoli, diventa come uno squarcio luminoso che permette di abbattere il muro di tenebre e di vedere, al di là del mistero di morte, il Cristo che indossa l’abito di luce. Il Maestro umiliato, condannato a morte, disprezzato, diventa il Signore della gloria. In realtà Gesù mostra loro ciò a cui egli è chiamato e con lui tutti noi: il venerdì santo, la croce non è l’ultima parola sulla nostra vita, è solo collocazione provvisoria (don Tonino Bello). L’ultima parola è di Dio e non può non essere parola di vita, di luce, di speranza, di rinascita, di rigenerazione perché già la prima è stata parola di luce, di vita.

Abbiamo appena detto che il cuore del nostro brano è il v. 35 perché Dio Padre si rivela Padre di “questo figlio”. Colui che appare glorioso e trasfigurato è il Figlio ed è colui che ha annunciato di dover soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, essere messo a morte e risorgere.

L’aggettivo “questo” non dice riferimento solo al livello fisico, sottolinea invece che Gesù, che i discepoli stanno conoscendo a poco a poco come colui che si esprime nel mistero della croce, “questo Gesù è il Figlio mio”, è la rivelazione di Dio come Padre, è tutto ciò che il Padre ha da dare e da dire a noi. E’ il culmine dell’amore del Padre.

“Questi è il Figlio mio”, colui che vi ha appena esortati a rinnegarvi, a prendere la vostra croce ogni giorno, a perdere la vostra vita. “Questi è il Figlio mio” che dovete ascoltare e seguire nel suo cammino verso la croce. La nostra trasfigurazione avviene proprio quando ci leggiamo e ci cogliamo figli nel Figlio.

“Ascoltatelo”: ricevetelo, accoglietelo, lasciatevi modellare da lui, conformare a lui, perché questo è il culmine della divinizzazione dell’uomo che il Padre ci propone, chiamandoci a essere in lui, come Gesù è nel e con il Padre. Credo occorra una vita intera per capire questo mistero e per lasciarci trasfigurare da esso proprio come ha fatto Francesco.

La reazione dei discepoli (vv. 32-34).

Come si può notare non si tratta di una reazione in forma ascendente. Comincia con il sonno, la fatica, la pesantezza (perché siamo qui? che senso ha?), la voglia forse di piantare tutto. Lc non dice che erano assonnati, ma “oppressi dal sonno”: è una situazione di tentazione grave, sono interiormente sotto un peso (bebaremenoi upno) più grande di quello che uno riesce a portare, per cui la voglia è di fuggire e il sonno diventa una fuga.

“Tuttavia restarono svegli”, lottando probabilmente contro le palpebre che si abbassavano e soprattutto contro la depressione interiore, e “videro la sua gloria”. Videro la sua gloria in un momento di resistenza, di non facilità, e tale visione è sufficiente per suscitare l’entusiasmo che è all’opposto rispetto alla reazione precedente di depressione: “E’ bello per noi stare qui”, “facciamo tre tende”, “non sapeva quello che diceva”.

Da notare l’incostanza e la mutevolezza dei tre, che passano da un sentimento all’altro: l’entusiasmo per la gloria torna poi ad essere paura. Quando il Signore li prende sul serio e, invece di costruire tre tende, li fa addirittura avvolgere dalla nube, che è il momento della rivelazione di Dio, si spaventano, in quanto si ricordano che non si può vedere Dio e restare in vita.

La metamorfosi, la trasfigurazione avviene soltanto attraverso la prova di esperienze contrarie (entusiasmo e paura). Non si tratta di una trasformazione indolore, è un passaggio macerante di esperienze contrapposte, in cui i discepoli entrano quasi forzatamente. Da parte loro c’è un assenso, un sì, però l’operazione è nelle mani dello Spirito Santo che li porta di qua e di là.

La dinamica di luci e di ombre è propria dell’esistenza di ciascuno di noi. La stessa Trasfigurazione passa, non si può fermare. Noi desidereremmo, come Pietro, una sorta di definitività nel presente e puntiamo verso certi traguardi che di fatto passano. Pietro vorrebbe eternare questo momento privilegiato che però è solo la meta, è ciò che ci attende, ma vorrebbe volentieri eliminare la strada che a questa meta conduce: prendere la propria croce, accettare la fatica di ogni giorno, la fatica di misurarsi con la ferialità di ogni giorno che talvolta è logorante eppure è il luogo privilegiato al quale il Signore ci rimanda per la verifica del ostro incontro con lui.

“E’ bello per noi stare qui… facciamo tre tende”.

E’ bello ritrovarci per dei momenti di grazia, ma attenti a non stravolgere come Pietro il senso della tenda, che è il simbolo per eccellenza della vita nomade, una vita cioè caratterizzata dalla provvisorietà. Pietro la vorrebbe trasformare in soggiorno definitivo, un rifugio contro il rischio della croce. Pretende la luce senza passare per il buio del Calvario. Si illude di poter arrivare alla meta senza dover affrontare la scomodità della partenza e del viaggio. Eh, già, miei fratelli! Dio non ti risparmia le lacrime, te le asciuga, ma non te le risparmia! Per questo ti dice:

“Questi è il Figlio mio prediletto. Ascoltatelo”. Il Figlio di Dio ha scelto la via dell’abbassamento, di chi riduce al nulla se stesso.

Questi è il Figlio di Dio che sei chiamato a seguire, questi è colui che devi ascoltare, questi è colui al quale devi ubbidire anche quando ci propone un itinerario difficile, fuori dai nostri schemi.

Rimanere con Gesù sulla montagna sarebbe molto bello, il guaio però è che lui ha fretta di ridiscendere e ti riporta all’asfalto, al puzzo dei tubi di scappamento, alla folla che ti pesta i piedi. E lì pretende di avere a che fare con la tua vita, di entrare nel mondo dei tuoi affari, delle tue cose.

La Trasfigurazione viene a dire a tutti noi che c’è qualcosa, in noi, che va oltre ciò che siamo e ciò che facciamo. Abbiamo la possibilità di partecipare alla vita stessa di Dio, pur nella nostra condizione umana. E non adduciamo come pretesto il fatto che per noi non c’è alcun Tabor su cui trasfigurarsi. Il tuo Tabor è il luogo in cui sbrighi le faccende di ogni giorno, non occorre ritirarsi dalla vita ordinaria. Pur nel luogo in cui tu vivi è possibile vivere una comprensione nuova della realtà, delle persone con cui vivi, delle cose che fai. Come? Te lo annuncia il vangelo: attraverso l’ascolto del Figlio di Dio.

Gli accompagnatori misteriosi (vv. 30-31).

“Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”.

In queste parole troviamo una sintesi del mistero della salvezza che si compie in Gerusalemme. Un’esegesi della conversazione di Mosè ed Elia l’abbiamo in Lc 24, dove Gesù richiama l’AT – legge, profeti e salmi – per spiegare l’evento della sua morte e risurrezione.

Se vogliamo dunque capire qualcosa del mistero di Gesù dobbiamo renderci familiari a Mosè e a Elia, alla legge, ai profeti e ai salmi. Attraverso la lectio divina impariamo a comprendere il senso di tale mistero e quindi anche il senso della nostra esistenza di discepoli e di figli nel Figlio.

Gesù, a colloquio con Mosè ed Elia, parla della sua dipartita, parla di esodo, di passaggio. E l’esodo per noi sta ad indicare la vittoria sul peccato, l’abbandono di realtà stagnanti che ci sfigurano e non trasfigurano, la ricostruzione della speranza a partire dalla Parola di Dio, la possibilità di ricominciare tutto daccapo con la certezza di farcela finalmente, l’abbandono dei mille faraoni che vorrebbero continuamente ridurci in schiavitù, stipulare finalmente un’alleanza con l’Eterno, vincere una buona volta sulle molteplici apatia croniche che ci impediscono di rompere con tutta una realtà che deturpa il nostro volto più vero. Senza questa decisione di liberarci dalle propaggini dell’antica schiavitù, questa festa sarebbe una farisaica messinscena.

Quali le condizioni che favoriscono la nostra trasfigurazione?

Ci rifacciamo a 2Cor 3,18, là dove Paolo dice: “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria, in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”.

In primo luogo, la nostra trasfigurazione avviene “secondo l’azione dello Spirito del Signore”, cioè è dono dello Spirito. La condizione per favorire la nostra trasfigurazione in Gesù è proprio la disponibilità ad accogliere la grazia dello Spirito, attraverso la preghiera. La preghiera ci apre a Dio permettendoci di superare le nostre resistenze e le nostre paure.

In secondo luogo Paolo ci insegna che la nostra trasfigurazione avviene “riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”. Come si fa a riflettere la gloria del Signore? La gloria va contemplata entrando in familiarità con il mondo di Dio espresso nella Scrittura, con la storia della salvezza. Infatti, sono Mosè ed Elia a far comprendere il mistero di Gesù, e, nella familiarità con Mosè e i profeti, Gesù introduce i due di Emmaus nel mistero della sua gloria attraverso la passione. La seconda condizione è perciò la lectio divina.

In terzo luogo Paolo ci dice che “veniamo trasformati”. Venire trasformati vuol dire cambiare forma e dunque accettare la fatica di tale cambiamento. Occorre superare la pesantezza, il sonno, la paura della nube e accettare la fatica di quel cammino che ci spoglia di noi stessi per rivestirci di Cristo, per essere trasfigurati in e con lui.

Che cosa può ostacolare un simile processo di trasfigurazione?

L’incapacità ad accettare la fatica. Non è facile accettare una tale fatica in un mondo come il nostro così dominato dalla tecnica. Per noi dire fatica equivale ad affermare di aver sbagliato strada o almeno sentiero. Per i popoli legati a civiltà più antiche, la fatica è condizione della riuscita. La tecnica ha proprio come scopo il ridurre la fatica, diminuire ciò che è oscuro, rendere tutto facile, chiaro, piano. E’ fatica salire le scale, e allora s’inventa l’ascensore; è fatica alzarsi dalla poltrona per cambiare il canale televisivo e allora s’inventa il telecomando. Non è un caso che i genitori oggi fanno di tutto per risparmiare la fatica ai figli; il loro ideale è evitare ai figli la fame, il freddo, la sete, il lavoro precoce, le levatacce al mattino.

Più volte, nella nostra esperienza personale, l’essere stanchi, appesantiti, contrariati, il constatare che gli altri non ci vengono incontro come vorremmo, crea disgusto, irritazione, il timore di aver sbagliato tutto nella vita.

Il più grande ostacolo alla trasformazione non sono tanto le singole difficoltà, quanto il ritenere che tali difficoltà sono uno sbaglio, sono cioè indicative di un errore nella scelta della strada, il pensare che la strada è giusta quando è facile e mi porta al successo, ed è sbagliata quando provo sentimenti di ripulsa.

La difficoltà va accolta e amata, occorre leggere in essa il segno che il Signore è con noi, che siamo sulla strada giusta perché lo Spirito Santo ci sta formando.

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Dal Vangelo secondo Luca 9,28b-36
 
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.