Credo non ci sia persona che abbia avuto una minima infarinatura religiosa che in questo giorno non vada con la mente al pensiero dei propri cari che non sono più in mezzo a noi o non consideri, anche solo per un attimo, la propria morte. Questo è per tutti noi cristiani il giorno della memoria, il giorno dell’affetto, il giorno dei gesti, il giorno dei segni, il giorno della preghiera. La nostra fede ci attesta che il vincolo che ci ha unito ai nostri cari, non è disgiunto: c’è una comunione (la comunione dei santi) tra noi e loro, che la morte fisica non può interrompere. Per questo preghiamo per loro e per questo, non poche volte, li invochiamo, sapendo che tanti di essi necessitano della nostra preghiera e tanti di loro possono venire in nostro soccorso.
Il nostro venire in questo luogo santo è solo per soddisfare un debito di carità verso i nostri defunti o, peggio, per un dovere sociale?
Noi veniamo qui per apprendere con maggior forza e più autenticità cosa voglia dire vivere.
Tutta la Scrittura, da Adamo a Gesù di Nazareth, potrebbe essere riletta come il racconto di cosa voglia dire vivere e di come si possa morire.
Se ci pensiamo, la nostra morte è il test più attendibile della verità della nostra esistenza: per questo, la nostra storia personale e comunitaria potrebbe essere vista come un continuo esercizio dell’imparare a morire e perciò un continuo esercizio del vivere il tempo che ci è donato, poco o tanto che sia, facendolo fruttare secondo il desiderio del Signore che ce lo ha elargito.
Quando Dio creò l’uomo, gli donò come nome un vocabolo che ha a che fare con la terra: Adàm. Questo nome significa “terra rossa”, vale a dire una polvere impastata di sangue. La polvere di per sé non ha vita, non gode di una sua fecondità: è solo perché Dio ha soffiato il suo alito che essa è diventata un essere vivente. Cosa vuol dire questo per noi? Che non abbiamo una nostra consistenza se non perché essa ci viene donata da Dio: nessuno di noi è in grado di reggersi senza questa continua connessione con la sorgente del nostro essere. La vita, ogni vita, è dono che viene dall’alto. Proprio questa consapevolezza ci sollecita ad un atteggiamento di umiltà che altrimenti ci sarebbe sconosciuto. Quello che sono, quello che faccio è dono che viene da Dio. Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre, ci ripeteva ieri San Giovanni. Non solo ha dato vita a questa polvere che sono io, ma mi ha addirittura concesso di diventare figlio suo.
Può accadere, però, che l’uomo smarrisca la memoria di questa sua identità di polvere e accecato dall’orgoglio di chi vuol costruirsi da solo, finisca, in realtà, per ribellarsi a Dio, cioè alla fonte stessa della vita. Ora, solo uno stupido potrebbe tentare una simile operazione: come può la polvere, infatti, pensare di sussistere da sola? È qui che si radica il peccato dell’uomo: nel credere di poter fare a meno del suo Creatore. Proprio questo voler prescindere da Dio e credere di riuscire a sussistere da soli, non fa che generare morte a tutti i livelli.
Avremo bisogno della rivelazione di Dio fatta dal Figlio suo per imparare cosa significa vivere e come si può morire. Un giorno, a chi lo contestava, Gesù ripeterà: “Io faccio sempre ciò che piace al Padre mio”. Ecco cos’è la vita: compiere sempre tutto ciò che sta a cuore al Padre perché è secondo la sua immagine che io sono stato concepito. Sarebbe come credere che una macchina pensata secondo un progetto, possa funzionare altrimenti.
Cosa abbiamo celebrato ieri nella solennità di Tutti i Santi se non la possibilità per tanti di essere nelle cose del Padre? Perché la loro è una vita riuscita? Perché mai, volutamente, dissociata da quel modello secondo cui era stata pensata.
Fuori da questa realtà, è morte, anche se continuiamo a vivere biologicamente. Siamo convinti che si entri nell’età adulta quando anagraficamente compiamo i 18 anni: in realtà, si diventa grandi quando si impara ad amare. E questo può accadere anche ad un ragazzino, come può succedere che un adulto anagraficamente non sia mai diventato grande.
Abbiamo bisogno di apprendere tutto questo dal Signore Gesù: solo lui che ha fatto tutto ciò che aveva visto compiere dal Padre, poteva insegnarci come vivere l’ultimo momento dell’esistenza terrena, in un atteggiamento di abbandono. Quella consegna, però, non si improvvisa: essa si prepara imparando ad alternare abbracci e distacchi, gioia e dolore, presenza e assenza. Il distacco, il dolore, l’assenza non sono semplici incidenti di percorso: sono piuttosto l’occasione nella quale apprendere la difficile arte di non assolutizzare nulla e nessuno perché siamo incamminati verso un abbraccio più vero e una gioia più duratura.