Per la Scrittura, l’uomo è un bisogno affidato all’amore e alla responsabilità dell’altro, sin dalle origini.

Il progetto degli inizi, infatti, è un progetto contro la solitudine: “Non è bene che l’uomo sia solo!”. La solitudine non può essere colmata né dalle cose né dagli animali. Adamo, infatti, cerca ma non trova. Per quanto paradossale, la solitudine dell’uomo non è colmata neppure da Dio. Dio scendeva a passeggiare con lui ogni sera al tramonto, ma neppure Dio bastava! Se è vero che Dio ha chiesto all’uomo di non avere altri dei all’infuori di lui, non gli ha mai chiesto di non avere altro amore all’infuori di lui. Senza amore per un altro, infatti, perfino il paradiso perde la sua attrattiva, diventa un torpore perenne.

Ora, l’espressione: “Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”, andrebbe meglio tradotta con: “Voglio dargli un aiuto di fronte/contro” (Gn 2,18). L’altro ti è di aiuto ma resta altro, appunto, con la sua individualità, con la sua irriducibile diversità. Guai a omologarlo.

L’altro, perciò, non è mai un incidente di percorso ma occasione perché io mi mostri uomo.

Quando Francesco d’Assisi farà ricorrere i frati alla elemosina dirà chiaramente che questa non servirà soltanto a provvedere alle proprie necessità ma a far sì che ciascuno possa mostrare la sua disponibilità a mostrarsi uomo alle prese con il Cristo che bussa alla sua porta.

 

L’altro: tra espulsione e riconoscimento

La vita ci obbliga a compiere pressoché quotidianamente non poche soste ma ce n’è una che rifuggiamo quasi continuamente: l’altro, il diverso, l’estraneo, colui cioè, che è “esterno al mondo in cui abitiamo e per questo ci appare come strano… difforme dal consueto, fonte di sorpresa, di perplessità” (SPINELLI B. Ricordati che eri straniero, p. 9).

La presenza dell’altro in mezzo a noi è memoria di un elemento che ha caratterizzato i credenti sin dall’inizio: la stranierità. A lungo, infatti, i cristiani si chiamarono e si sentirono stranieri in questo mondo (la loro patria è altrove, nei cieli), esercitando nei confronti degli stranieri un atteggiamento di disponibilità e di accoglienza riconoscendo in loro la presenza del Signore e maestro: ero forestiero e mi avete accolto (Mt 25,35).

Tuttavia, siamo anche noi figli di un mondo in cui da un po’ circola uno slogan che suona più o meno così: attenti, arrivano gli altri! E gli altri arrivano dappertutto e facciamo fatica ad arginarne i flussi. Per alcuni aspetti la loro presenza non solo ha messo in discussione tante frontiere territoriali ma anche i nostri schemi mentali, il nostro modo abituale di agire.

Noi stessi, peraltro, sperimentiamo come non mai un sentimento di estraneità nei confronti di noi stessi: l’io straniero a se stesso. Percepiamo la distanza da modelli culturali che fino a ieri erano elementi di riconoscibilità. Nulla ci è più familiare, facciamo fatica a sentirci parte di una totalità. Ci sentiamo soggetti autonomi non riducibili ad una determinata cultura. Si tratta di una nuova autocomprensione molto rivoluzionaria, di cui registriamo i sintomi ma non siamo in grado di stabilire con esattezza gli esiti, i risvolti. Viviamo nell’era delle ragioni individuali, non riconosciamo più una ragione universale. E il sentimento che ne consegue è quello di estraneità. Si resta estranei a ciò o a chi ci è vicino.

Un po’ in tutte le culture la posizione di fronte allo straniero, al diverso, all’altro, altalena tra esclusione e riconoscimento, lo si coglie o come realtà minacciosa da espellere o come soggetto inviolabile comunque da accogliere e da proteggere.

Rousseau sosteneva che “l’origine della civiltà coincide con l’innalzamento del primo recinto”. Culture e gruppi si costituiscono sempre attorno ad una linea, il confine, che se da una parte traccia e delimita lo spazio di appartenenza, l’interno appunto, dall’altra traccia anche un esterno come spazio che esclude.

Riconoscere la sacralità dell’altro sarà una delle conquiste più alte dell’umanità che segnerà il passaggio da uno stadio animale a uno stadio umano. Tuttavia, pur avendo conosciuto tratti di ospitalità nei confronti dell’altro da noi, tutte le culture faranno fatica a mettere in discussione le categorie del fuori e del dentro, con tutta la logica di inimicizia e di esclusione che ne consegue.

Mi piace richiamare, a questo proposito, ciò che p. Balducci commentando il brano di Lc 10 affermava: se un cristiano crede veramente nel Cristo della storia e nel Cristo della fede, deve convincersi che, qui, su questa terra, oltre l’essere umano non vedi niente se non, appunto, il rischio di perseguire una religione spesso inquinata da superficialità e vista soltanto come protesi della vita.

 

L’altro: una fessura da cui guardare la storia

Per la nostra fede che affonda le sue radici nell’esperienza ebraica, lo straniero, l’altro è una fessura da cui guardare la storia. Il punto prospettico per guardare la storia, la propria, da una prospettiva altra così da riconoscerne tutti i punti di debolezza.

La categoria dello straniero racchiude in sé, per la Bibbia, tutte le specifiche del povero, dell’orfano, della vedova. Lo straniero, l’orfano, il povero, la vedova, sono categorie perché Israele ormai sedentarizzato non dimentichi il suo essere stato straniero in Egitto. Sono l’attualizzazione di una esperienza storica che non è più ma di cui Israele non deve perdere la memoria. Gesù riprenderà queste categorie facendone addirittura il sacramento della sua presenza: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,40). Gesù arriverà addirittura a radicalizzare la categoria dell’estraneità aggiungendovi quella del nemico.

Straniero, orfano, povero, vedova, nemico (e quanto può rientrare in questo typos: malati, perseguitati, carcerati, peccatori, malvagi, esclusi), non sono anzitutto delle categorie sociologiche. Per Israele prima, per i discepoli di Gesù poi, essi sono categorie teologiche, sono esattamente il luogo in cui Dio ha scelto di rivelarsi e dove all’uomo è dischiusa la possibilità di riconoscere la verità e il senso che abita tutte le cose. Queste categorie, il cui tratto è l’incompiutezza espressa dal bisogno, sono il luogo in cui Dio ha scelto di abitare: lo avete fatto a me… Per aprirti a Dio non resta che aprirsi all’altro.

 

L’odio per chi è diverso

C’è una pagina nella Scrittura che narra del difficile rapporto con lo straniero e riguarda il caso delle città di Sodoma e Gomorra, a tutti noi note per la loro perversione sessuale. Noi le abbiamo addirittura fatte assurgere a paradigma del sesso come deviazione.

Qual è in realtà l’elemento in questione? Il problema non è la perversione sessuale ma la violenza fatta all’ospite. Il crimine di cui Sodoma e Gomorra si sarebbero macchiate era proprio l’ostilità nei confronti dello straniero. E per questo peccato non c’era remissione possibile. Odiare lo straniero era come avere in odio la stessa divinità. La distruzione delle due città, più che espressione di una volontà punitiva, è metafora della morte in cui precipita il soggetto quando si rifiuta di essere ospitale.

“’Amerai lo straniero’, scrive lo scrittore premio Nobel Isaac Bahevis Singer, ‘è il più importante, il più ripetuto ‘comandamento’ di tutta la Bibbia… Noi tutti siamo stranieri davanti a Dio ed Egli è straniero davanti a noi. Perseguitare, vessare, umiliare lo straniero è perseguitare, vessare e umiliare il divino… è giunta l’ora di proclamare che c’è un solo modo di vivere in pace su questa Terra: da straniero fra gli stranieri!” (OVADIA M., Vai a te stesso, p. 35).

“Diventare stranieri a se stessi è intraprendere un lungo e travagliato viaggio al termine del quale l’essere umano manifesta lo splendore della propria nudità esistenziale, spogliata degli orpelli burocratici, delle paure e dei pregiudizi” (idem, p. 37).

 

Il farsi prossimo di Dio

La vicenda d’Israele in Egitto diventa luogo nel quale Dio si manifesta come colui che ascolta il lamento degli israeliti e se ne prende pensiero. Rivelandosi come colui che ascolta il lamento e si prende pensiero d’Israele, Dio si manifesta come prossimità, dilezione e l’uomo fa esperienza di Dio nel segno della fiducia. L’uomo fa esperienza di Dio vivendosi e sapendosi sotto il suo sguardo. Eppure Dio resta alterità assoluta, svincolato da tutti gli esistenti. Non a caso a Dio si attribuisce la santità, che significa appunto separazione, alterità. Egli è il tre volte santo. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è nell’ordine di una necessità ma della gratuità. Dio interviene prima e indipendentemente da ogni invocazione, per libera decisione personale. La distanza sarebbe comunque incolmabile se Dio non decidesse lui di farsi prossimo. Dio sarebbe comunque imprendibile e non catturabile dall’uomo, altro e oltre rispetto a lui. Mai riducibile ad una cultura, all’ethos o alla religione di un popolo, egli si inserisce al suo interno come elemento di rottura, come inquietudine e messa in discussione.

Dio è estraneo a Israele, non fa corpo con esso. E tuttavia non resta indifferente alle sorti del popolo. Il suo essere altro e oltre non è mai letto come indifferenza e lontananza ma, paradossalmente istituisce proprio la più radicale vicinanza: non quella di chi si sente attratto spontaneamente per affinità ma quella di chi compie una libera scelta per volontà di bene.

L’estraneità diventa condiscendenza: Dio sceglie di scendere sulla terra dall’altezza della sua trascendenza per porsi al fianco di chi soffre, assumerne il patire e riscattarlo. Un Dio con l’uomo e per l’uomo. Questa condiscendenza divina ha raggiunto l’apice della sua espressione in Gesù di Nazaret. I suoi gesti e le sue parole, il suo patire e il suo morire sono il dispiegamento e il compimento della decisione di Dio di stare accanto e in mezzo al suo popolo. Una prossimità radicale che Dio mai abbandona anche se abbandonato.

Il motivo della condiscendenza di Dio è la fine dell’estraneità d’Israele, la fine del suo essere straniero. Dio scende perché si ponga fine alla fatica prodotta dal non appartenere, dall’essere in una terra con la quale – nel caso d’Israele – non è possibile identificarsi.

E tuttavia Israele uscirà dalla condizione di estraneità non quando finalmente entrerà nella terra promessa con una sua autonomia, ma quando si porrà in ascolto di ciò che Dio gli chiede camminando al suo fianco. E che cosa chiede Dio? Nulla che non sia alla portata dell’uomo: si tratta di come relazionarsi con quanto all’interno del proprio contesto storico risulta fastidiosamente irrilevante: Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete alcun torto. Lo straniero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio (Lv 19,33-34).

Dio chiede il riconoscimento di chi è diverso, altro da te e che, immediatamente sfugge alla tua presa e alla tua comprensione. Nella misura in cui Israele si apre all’accoglienza di questa volontà del suo Signore gli è garantito il superamento dell’estraneità e l’esperienza della libertà. Per la Scrittura la libertà non coincide con il possedere una patria di appartenenza, ma con il creare un sistema sociale nuovo, altro, in cui le relazioni non sono definite in base all’appartenenza culturale o religiosa ma a partire dal mettere in discussione se stessi per aprirsi all’accoglienza dell’altro. Dio scende per istituire un nuovo umano fatto di bontà. E l’altro, chiunque egli sia, è colui che dischiude per noi tale possibilità, ancora oggi.

Per questo tutta la profezia non farà altro che ribadire il primato della giustizia rispetto al culto e al rito. Gc 1,27 ribadirà con fermezza: religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni…

“La via che porta a Dio porta… ipso facto – e non per sovrapposizione – verso l’uomo” (E. Lévinas).

 

Praticare l’ospitalità

 “Non si tratta di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrimediabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione – allora non siamo una generazione vitale” (E. HILLESUM, Lettere 1942-1943, p. 45).

Secondo le parole di Etty Hillesum si diventa vitali nella misura in cui si è in grado di ospitare la vita perché da ogni realtà si accolgano istanze e prospettive che non siano la mera riedizione di un passato.

Dio stesso si colloca su questa lunghezza d’onda: “Ecco sto alla porta e busso…” (Ap 3,20). Nell’incarnazione chiede addirittura che la nostra carne diventi sua dimora. Con l’incarnazione Dio esce e si fa ospite e pellegrino dell’uomo, conferendo proprio a questa nostra umanità un carattere sacramentale. Il quotidiano diventa così caparra di una vita accolta e benedetta da Dio. E tuttavia, in questo processo che Dio stesso assume possiamo parlare di vera e propria carriera a rovescio del Figlio di Dio: nasce e muore come straniero fuori dalla città, come scomunicato, non riconosciuto: i suoi non l’accolsero (Gv 1,11). E chi lo riconosce è solo gente ai margini o persone fuori da un contesto sociale di riconoscimento (dagli angeli ai pastori ai magi agli animali a Giuseppe che impara a reggere all’abisso dell’estraneo). Restano fuori dall’accogliere Gesù proprio coloro che avrebbero dovuto disporre della chiave di lettura più idonea, abbagliati e ottenebrati com’erano dalle loro convinzioni.

Il paradosso dell’ospitalità di Dio è nell’ultima cena quando nessuno dei presenti comprende quel gesto “altro” che Gesù pone di fronte ai discepoli. L’unico a coglierne la portata è Giuda. Giuda comprende che quel gesto di Gesù distrugge ogni ordine sacrale, distrugge tutto ciò che vorrebbe scomunicare l’altro: quello che devi fare fallo presto (Gv 13,27). Giuda comprende che Gesù scombussola i nostri criteri di ciò che è estraneo e di ciò che è vicino e non riesce a reggerne il peso. E Gesù arriva non solo a fare spazio all’altro – i discepoli – ma persino al discepolo che emerge nel suo volto di opposizione, Giuda in questo caso. E questo non attraverso un gesto di integrazione: egli lascia che l’altro rimanga altro. Ognuno rimane ciò che è. Francesco d’Assisi aveva compreso qualcosa di questo mistero quando nella Lettera ad un Ministro arriva a dire: non volere che gli altri diventino cristiani migliori.

Dio arriva ad ospitare e assumere persino ciò che gli è alieno per eccellenza: colui che ha deciso di far del male.

Non è un caso che in quel contesto Gesù usi le parole e i gesti dell’amicizia. L’amicizia, infatti, che cos’è se non un legame molto fragile che vive del riconoscimento libero dell’altro, di una reciprocità mai del tutto circoscrivibile?

C’è una benedizione che accompagna anche i giorni di buio. C’è un passaggio dello Spirito anche nell’ora della prova e, senza saperlo forse, può accadere anche a noi di ospitare angeli (Eb 13,2).

 

L’alterità da riconoscere e da accogliere

A differenza di tutti gli altri popoli Israele pone proprio al centro del suo racconto di fondazione lo straniero, l’altro. Tutte le culture, invece, pongono un eroe o comunque una figura di rilievo che con il suo di più istituisce un ordine di forza, da quella fisica a quella dell’intelligenza o della sapienza.

La Parola di Dio non ha al cuore del suo racconto fondatore l’eroe ma l’altro il quale non ha un passato glorioso da narrare ma un’esperienza di oppressione da condividere: “Stranieri noi fummo in Egitto. Di là Dio ci trasse con mano forte e braccio disteso per farci entrare in una terra, la sua, dove scorre latte e miele e dove si può restare solo nella consapevolezza di non esserne i proprietari ma i beneficiari”.

La stranierità è simbolo della condizione umana: l’uomo può vivere solo se c’è una mano che accoglie e ospita, se c’è un grembo che fa spazio a qualcosa che neppure ancora esiste e che proprio al suo interno comincerà ad essere plasmato (si pensi all’utero materno che accoglie un seme “straniero, altro”).

Essere stranieri vuol dire sentirsi chiamati ad abitare questo mondo diversamente, non secondo la logica dell’appropriazione ma dell’espropriazione.

La Parola di Dio è una continua messa in discussione proprio di quel tratto dominante tipico di tutte le culture e dal suo canto è annuncio e proposta perché si costituisca un contesto sociale in cui le alterità siano riconosciute e accolte, dove l’accoglienza dell’altro non è l’una tantum ma il fondamento della co-esistenza.

Lo straniero, infatti, non è una categoria sociale, ma di carattere simbolico: esso richiama quell’aspetto della propria umanità che non viene riconosciuta e accolta. L’altro, chiunque esso sia, ci ricorda che noi stessi siamo conturbanti per noi stessi; l’altro, colui sul quale sentenziamo, è forse il nemico di ciò che odiamo in noi stessi. “Il nemico non è altro che la figura della domanda che siamo noi stessi per noi. E noi lo braccheremo e lui ci braccherà fino alla medesima fine” (C. Schmitt). La vita ridotta a una continua caccia alle streghe.

L’apertura all’altro è comunque mettere in discussione tanta parte della nostra identità.

Ciò che ne consegue è entrare in una esperienza di xenologia, arrivare a parlare nella prospettiva dell’altro.

L’altro, chiunque esso sia e comunque esso sia è una invocazione rivolta a me che mi chiama ad esprimere responsabilità. Una responsabilità che va oltre il desiderabile e oltre i criteri di appartenenza.

Nell’AT la figura dello straniero (a cui va legata quella del levita, dell’orfano e della vedova) è per eccellenza figura di alterità perché non possiede nulla. Egli è figura della impossibilità a garantirsi da sé e perciò costitutivamente affidato alla responsabilità dell’altro. L’uomo, ogni uomo, è povero costitutivamente: c’è un vuoto di vita che attende di essere colmato dalla mia responsabilità.

 

Lo spazio della gratuità

Lo straniero è colui che appunto è extra, fuori dallo spazio del potere, fuori dall’orizzonte del radicamento e del possesso. La sua presenza istituisce l’orizzonte della gratuità e della grazia dove si è in forza di ciò che si è riceve gratuitamente. E il gratuito di cui si è fatto esperienza deve diventare principio del proprio essere e operare: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Ricevere e restituire sono i due verbi che costituiscono la struttura antropologica dell’uomo secondo il vangelo.

Essere come il Padre: questo è il senso della vita cristiana. Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,58). La giustizia del Padre si manifesta nel far sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (Mt 5,45). Oggi tema del dibattito è molto più spesso l’identità, ma questa è una preoccupazione più tribale che biblica. Ai credenti deve stare a cuore il regno di Dio e la sua giustizia.

A Dio sta a cuore la costituzione di una umanità che finalmente si riconosce fraterna. Questo il sogno affidato alla comunità dei discepoli. L’era della globalizzazione, era di scambio di merci, deve poter diventare un’era di incontro tra fratelli e sorelle che si riconoscono, si accolgono e si co-ospitano. La fraternità è anteriore e oltre ogni appartenenza religiosa, come è anteriore ed è il senso di ogni appartenenza politica.

La Parola di Dio parla della fraternità come di un a priori perché l’altro non può mai essere visto come minaccia per la propria identità. Il problema, infatti, è che noi percepiamo l’identità solo come un dato che è prodotto dalla natura e dalla cultura. Essa, invece, è un processo con un suo divenire. Ciascuno è ciò che viene fuori dal suo sistema di relazioni umane. Non è mai possibile cogliere l’essere dell’uomo staccato dalla relazione con l’altro. La realizzazione della mia esistenza è indissolubilmente legata al riconoscimento dell’altro, all’essere qualcuno per l’altro in modo gratuito. L’identità non è tanto nel soggetto a sé stante ma nella sua relazione. Non è un fattore statico da preservare ma un processo che pur tenendo conto del punto di partenza è apertura verso il futuro che nasce proprio dall’apertura verso l’altro, diverso da me.

“Le civiltà si nutrono delle differenze, la loro stessa natura è il cambiamento… La storia del mondo è fatta di incontri culturali, di movimenti”, così Sandrine Bessora, autrice del romanzo Macchie d’inchiostro (Epoché) rispondeva su Avvenire a chi le chiedeva che cosa pensasse dello scontro delle civiltà.