Introduzione
Nella difficile traversata del deserto compiuta da Israele, ad un tratto, il popolo, quasi ribellandosi a Mosè che si era fatto capofila di quell’insolito percorso senza alcuna sicurezza, così protesta: “Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (Sal 78,19). Come a dire: se non ho qualcosa da mettere sotto i denti non c’è itinerario di liberazione che tenga.
Non è necessario ricorrere a chissà quali studi di antropologia per comprendere che proprio il cibo segna il limitare tra la vita e la morte. Cosa può sperare un uomo che non ha da mangiare? Non a caso le lotte tra gli uomini sono sempre lotte di sopravvivenza che hanno come sfondo il cibo e tutto ciò che esso richiama.
Mangiare, per un uomo, è molto più che ingurgitare. Per farlo, l’uomo deve sceglierlo, tanto è vero che quando è angosciato e chiuso alla vita, può venir meno persino la voglia di mangiare.
Il cibo, poi, dice relazione tra chi mangia, chi nutre e il tempo occorso per la preparazione e quello che segue l’essersi cibato.
Pensiamo solo per un attimo all’allattamento: potremmo, forse, dire che si tratta soltanto di un tot di latte che dal seno della madre viene travasato nello stomaco di un bambino? Attorno al suggere il latte c’è tutto un linguaggio che aiuta ad esprimere la reciproca appartenenza.
Pensiamo ancora al tempo che occorre per preparare un cibo, immagine della vita che i genitori donano ai figli. È forse un caso che la maggior parte dei disturbi alimentari attingano proprio a delle difficoltà relazionali? Quando sperimentiamo un vuoto non tentiamo, forse, di colmarlo abbuffandoci di qualsiasi cosa ci capiti a tiro? Perché mai satana, nelle tentazioni del deserto, sferrerà il suo primo colpo contro Gesù proprio partendo dal cibo? Cosa gli suggerirà, infatti? Di trasformare una pietra in pane cosicché, attraverso un miracolo, possa provvedere da solo a se stesso senza il bisogno di alcuno. Era stata questa anche la tentazione di Adamo ed Eva: mangiare del frutto dell’albero in mezzo al giardino mettendosi contro chi aveva creato e loro e l’albero. Con quale esito? Che il cibo si trasformò in veleno dal momento che avevano pensato di prescindere dalla sfera relazionale. Ben a ragione Gesù risponderà: “Non di solo pane vive l’uomo” (Lc 4,4). Se il cibo è sottratto alla dimensione della gratitudine (ecco il motivo della nostra preghiera prima e dopo il pasto) e della condivisione nella compagnia degli uomini, si nutre il fisico ma non l’anima.
Ecco perché, tra gli altri motivi, Gesù istituisce il sacramento della sua presenza attraverso una mensa: perché tutti coloro che si nutrono di quel pane imparino a preparare una mensa nel deserto del mondo attraverso la capacità di vivere in comunione con Dio e con gli uomini loro fratelli.
“Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?”. Ecco la domanda che fa da sfondo a questo nostro incontro.
Il segno del pane spezzato e condiviso dev’essere davvero importante se gli evangelisti lo raccontano per ben sei volte. Per giunta, quello che colpisce di più, è che tranne un particolare riportato da Gv 6,14-15 (la folla cerca Gesù per farlo re), negli altri casi la folla si nutre senza neppure rendersi conto di cosa sia accaduto realmente. Non stupiamoci, perciò, se una volta soddisfatta la fame di qualcuno, questi se ne va senza alcun segno di riconoscenza. È accaduto anche a Gesù.
Mc riporta una duplice moltiplicazione: la prima sulla riva occidentale del lago di Gennesaret, la seconda su quella orientale; la prima sulla riva ebraica, la seconda su quella pagana. La fame è fame per ebrei e per pagani e Gesù è pastore che si prende cura e degli uni e degli altri.
La sera… Ognuno provveda a se stesso
Erano stati giorni difficili per Gesù: Giovanni, il figlio di Elisabetta, l’ultimo dei profeti, il precursore, chi al Giordano l’aveva indicato come “l’agnello di Dio”, era stato messo a morte. Appena giunta la notizia Gesù sente il bisogno di andare in disparte, da solo: sono momenti, questi, in cui l’unico desiderio è quello di startene in solitudine.
A questo si aggiunga il rientro degli apostoli dalla missione: si erano riuniti attorno a Gesù per metterlo a parte di ciò che era loro accaduto.
Proprio questo loro trovarsi “attorno a Gesù” esprime qualcosa che non va dimenticato. Il primo tratto del credente è proprio la relazione con Gesù, il ritrovarsi con lui facendo dell’ascolto lo stile abituale.
Gesù non aveva trovato di meglio che proporre uno stacco, un ritiro. Qualcosa, però, sconvolge i piani. C’è un’urgenza che viene prima di ogni bisogno di solitudine, c’è un dolore più grande di quello che sta provando per la morte di Giovanni: è la sofferenza della folla che accorre a Lui.
Forse da indiscrezioni, viene a sapere dov’è andato. A piedi e con fatica, perciò, lascia le città e si inoltra nel deserto pur di poterlo ascoltare. Addirittura lo precede.
Tutto questo accade proprio quando ti verrebbe da dire: “Oggi non è giornata”.
 Vide molta folla e fu preso da compassione per loro…
È la stessa descrizione del samaritano di fronte all’uomo ferito lasciato sul ciglio della strada e del padre misericordioso. Pur essendo disturbato nella sua ricerca di silenzio e di solitudine in un luogo appartato, non si innervosisce. È forse possibile sottrarsi quando qualcuno ti consegna la sua fame di verità?
Lo sguardo di Gesù è sguardo capace di ospitalità per una intera folla ma soprattutto sguardo capace di leggere in profondità la condizione reale di quella gente. Ne coglie la domanda inespressa. Vede che quella folla è come pecore senza pastore, in balìa di se stessa e di eventuali predoni. Mosè aveva chiesto al Signore una vera guida proprio perché il popolo non fosse “come pecore senza pastore” (Nm 27,17).
I bisogni vanno presi sul serio, anche i nostri. Qui si tratta di due bisogni fondamentali: l’insegnamento (Mt riporterà la cura per i malati) e la soddisfazione della fame.
Per Mc la compassione si esprime anzitutto attraverso il dono della Parola. Perché mai? Perché il popolo raccolto da Dio nel deserto deve apprendere a vivere prima che di pane, “di quanto esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Se è vero che tutto è stato creato mediante la forza della parola, è vero altresì che nulla resta in vita senza la parola: “se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Il Sal 81 risuonerà come un’eco: “Se il mio popolo mi ascoltasse… li nutrirei con fior di frumento” (Sal 81,14-17).
Il primo pane è la Parola. Sono le parole, infatti, il vero condimento del cibo e il tramite mediante il quale il cibo è letto nella sua valenza più vera. Quando sono parole rabbiose finiscono per avvelenare persino il cibo più gustoso. Quale parola accompagna il nostro dare cibo? Non accade, talvolta, che possano parlare solo alcuni e altri no? Dare il pane è certamente più facile del dare la parola all’altro. Quando non è preceduto e accompagnato da parole genuine, il pane diventa indigesto.
Credo vada letto da questa prospettiva il lavoro dei nostri Centri d’ascolto.
Ecco perché, peraltro, non ci nutriamo mai dell’Eucaristia senza prima aver ascoltato la Parola. Ascoltare Dio che parla significa riconoscere che il cibo di cui mi nutrirò nel sacramento è davvero espressione del suo desiderio di nutrire il mio cammino e di rendermi partecipe della sua stessa vita.
Solo in un secondo momento lo sguardo di compassione di Gesù diviene segno tangibile attraverso il dar da mangiare. Operazione a cui associa anche i discepoli che divengono prolungamento della compassione di Dio: la chiesa il prolungamento della compassione di Dio. Ma come? Noi penseremmo attraverso mezzi all’altezza della situazione. E, invece, niente di tutto questo.
In Gv 6 c’è una parola che rappresenta la chiave di lettura della pagina evangelica: “Diceva così per metterlo alla prova”. Più che di una azione umanitaria si tratta di una fede messa alla prova.
Se il momento non fosse tragico, ci sarebbe di che ridere per davvero. Il ritiro in un luogo appartato era stato programmato perché “non avevano neppure il tempo per mangiare” (Mc 6,31) e, invece, cosa accade? Bisogna digiunare anche ora, anche qui?
 È ormai tardi…
L’espressione richiama un altro racconto famoso, quello di Emmaus, quando, sul far della sera, il viandante fa come per andarsene e i due discepoli insistono perché si fermi. Solo allora egli si farà riconoscere: è il Signore! (cfr. Lc 24,13-32).
La sera è perciò l’ora del riconoscimento eucaristico. Non è il momento dell’evidenza, la sera, ma quello della fede e perciò dell’intimità. Mt 26,20, infatti, così annoterà: Venuta la sera, Gesù si mise a sedere con i Dodici (26,20).
Nel nostro brano, il calare della sera indica l’ora della separazione, il momento in cui è opportuno che ciascuno faccia ritorno alla propria casa. E invece, sia per le folle del deserto che per i discepoli di Emmaus, quella sera non conosce congedo ma diventa l’ora della manifestazione piena di Gesù.
Che cosa accade?
Gli apostoli si accostano a Gesù per suggerirgli: Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali perciò, in modo che andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare (Mc 6,36).
La preoccupazione per la gente è reale ma è impropria la soluzione.
Ancora una volta gli apostoli spostano il baricentro all’esterno: invece di pensare a mettersi in gioco personalmente come poi accadrà, prospettano la soluzione a partire da nuove strategie di tipo economico-gestionale. Nessun progetto tiene se manca una convinta scelta di coinvolgimento personale.
Per gli apostoli la sera che scende è solo il momento di licenziare tutti in gran fretta prima che il buio li sorprenda. E perciò si accostano a Gesù riprendendo in mano l’iniziativa.
La sera per gli apostoli è il momento in cui finalmente far tornare le cose alla normalità, è il momento in cui bisogna aderire al reale. Il suggerimento dato a Gesù suona sulle loro labbra come una sorta di richiamo al buon senso: Lasciala andare questa gente… La loro è una sorta di critica nei confronti dell’imprudenza di Gesù che non si rende conto del luogo (il deserto) e dell’ora (è ormai tardi). Questa sembra la scelta più semplice, quella che accontenta tutti, che non crea molti problemi e richiede poco impegno.
Quello degli apostoli, a dire il vero, non è solo un suggerimento ma un vero e proprio comando. Sono convinti di sapere come bisogna comportarsi. È lo stesso atteggiamento di Marta quando è convinta di sapere che cosa Gesù debba dire a Maria sua sorella: “Dille dunque che mi aiuti” (Lc 10,40).
Nel caso degli apostoli la situazione si fa addirittura ironica perché essi che ora sono lì a suggerire il congedo della folla, alla fine dovranno essere mandati via a forza perché non vorranno più andarsene. Mt dice che Gesù li costrinse a partire, quasi buttandoli sulla barca (cfr. Mt 14,22). Per loro non restava altro da fare se non che ciascuno pensasse a se stesso. Cosa significa questo per noi?
La proposta di Gesù: ognuno si faccia carico della fame dell’altro
Quello che Gesù sta per fare è proprio il contrario di quanto gli viene proposto. Per Gesù, una volta ascoltata la sua Parola, è il momento in cui quella gente è chiamata a fare comunità. È l’inizio del nuovo popolo di Dio.
Prima erano degli individui bisognosi di apprendere, ognuno con la sua caratteristica personale, in attesa di una parola vera capace di dare significato alla propria esistenza. Qui ognuno provi a pensare alla sua storia: l’età, la formazione ricevuta, gli impegni già vissuti, gli impegni prossimi… Il Signore ora vuole che nasca una comunione di vita, espressa anzitutto in una comunione di mensa.
Per questo prende il comando della situazione e dice: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37). Quando tutto sembrava concluso Gesù ribatte con forza: “No, non mandateli a casa; date voi loro da mangiare”. Siamo al cuore dell’episodio.
Gesù sa che le folle nel deserto non hanno bisogno di andarsene per badare ciascuno a se stesso e sa pure che gli apostoli, invece, devono fare di esse una comunità: “Voi stessi date loro da mangiare”. Chissà cosa avranno pensato! Duecento denari non sarebbero sufficienti a comperare pane per tutti.
La programmazione, la razionalità, l’inventario delle risorse, il calcolo delle possibilità, qui saltano in blocco. I soliti criteri non tengono più. La cifra decisiva qui è un’altra, ed è la fede. Quando questa viene assunta come criterio c’è spazio perché l’inedito accada e l’inaspettato si compia. Grazie ad un ragazzo, dirà Gv.
Ma cosa significa quel comando: “Voi stessi date loro da mangiare?” Significa: Siate padri di questa gente. Indica il dovere dei genitori verso i figli. Siate padri di questo popolo!
Il pane che aiuta ad attraversare la propria notte non è quello che si compera ma quello che si condivide per amore.
Quanti pani avete? Andate a vedere
Si parte da ciò di cui si dispone e lo si valorizza nella prospettiva della fede e della benedizione.
Gli apostoli non sono più di fronte a degli individui singoli la cui logica è che ciascuno pensi per sé, sono invece di fronte ad un popolo cui devono provvedere essi stessi. Non solo: l’andare a vedere significa imparare a stabilire relazioni con i presenti, diventare consapevoli delle risorse effettive di cui si dispone. Nessun intervento da parte di Gesù se prima i discepoli non si sono resi conto. Quando tornano, ecco la magra risposta: “cinque pani e due pesci”. E che si può fare con un risultato tanto desolante? È poco, sì, ma è qualcosa.
Come è possibile che il Figlio di Dio chieda a me di dare da mangiare agli uomini? Posso risolvere io le necessità della folla? Che cosa posso dare? Io sono poca cosa, non ho niente da dare.
È quel poco che è pochissimo ma non niente. È il nostro poco niente che ci viene chiesto di offrire. “Prendi Signore quel niente che sono e donami il tutto che sei” (Mons. Canovai). Che cos’è la nostra vita di discepoli se non la consapevolezza di disporre di cinque pani e due pesci che non vogliamo tenere solo per noi ma condividere con chiunque altro il Signore ponga sul nostro cammino “al fine di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,12)?
C’è un particolare che non va taciuto. Gesù chiede ai suoi di far sedere tutti sull’erba verde: il deserto è diventato giardino. Noi abbiamo tradotto a gruppi di cento e di cinquanta: Gesù, chiede, invece, di far adagiare tutti ad aiuole. Si realizza ciò che preghiamo nel Sal 22: “in pascoli di erba verde mi fa riposare”.
Tutti sono invitati a sedersi come a mensa, non più in piedi e in fretta come nell’Esodo quando gli Ebrei si preparavano a fuggire dall’Egitto. Se il banchetto del primo Esodo fu fatto in fretta e in piedi perché si fuggiva dalla schiavitù, quello del secondo esodo si prolunga nella notte, stando sdraiati in compagnia dei familiari, perché stabilisce l’ingresso nella libertà.
In questo modo, quelle che erano come pecore senza pastore diventano un popolo ordinato, sotto la guida del solo che conduce ai pascoli verdeggianti. Quando si passa dall’economia del possesso a quella del dono, il mondo, il nostro mondo, da deserto, diventa terra promessa. E si compie la profezia di Is 35,1: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa”.
Te stesso
Tutte le volte in cui incrocio la fame di qualcuno è a me che viene detto: dammi il tuo poco niente. Per me è molto, dice Gesù: è quanto basta. Cinque pani e due pesci è quello che abbiamo e di cui forse ci vergogniamo quando addirittura non ci lamentiamo perché è troppo poco. Ma è quanto necessita per la costruzione del popolo di Dio.
Vuole che mettiamo a sua disposizione quel piccolo canestro composto dalle nostre energie, dalla nostra intelligenza, dal nostro cuore, dai nostri sentimenti. Questa è la nostra vocazione.
Vuole che ci rimbocchiamo le maniche e che, concretamente, ci accostiamo a ciascuno dei nostri fratelli per dare risposta alle loro necessità, di qualsiasi genere siano e per comunicare loro quella ricchezza di vita e di speranza che egli già ci mette a disposizione.
Non puoi mai dire di non avere niente. In realtà, hai sempre molto nella tua povertà: hai a disposizione te stesso. Ma cosa vuoi fare di quello che sei e di quello che hai? A quale servizio dei fratelli il Signore ti chiama?
Gesù non commenta il fatto che quel pane e quei pesci siano poca cosa. Fino a questo momento Gesù aveva creato una comunità di ascolto e aveva guarito tante persone. Ora Gesù è preoccupato di una massa a cui dare unità, una unità che parta dalla Parola e che si prolunghi nella comunità di vita.
Nessuno può trattenere per sé i cinque pani e i due pesci. Gesù non parte dal nulla e non vuole che si disprezzi ciò di cui disponiamo. Ci chiede di portargli il nostro poco. Porta a me quello che sei, così come sei, portami il poco che hai perché serve per la salvezza di un popolo. Sono capace di fidarmi di questa parola?
Il vero miracolo è il gesto del non tenere per sé ma accettare di condividere, il mettere a disposizione di tutti il poco di cui si dispone. Per questo è improprio parlare di moltiplicazione: per la fede, le risorse si moltiplicano nella misura in cui non vengono trattenute.
Moltiplicare non è alla nostra portata, spezzare e distribuire sì. 
 Il rifiuto della responsabilità
Mentre Gesù esorta la gente a restare e ad accomodarsi per terra, i discepoli si ritrovano nei panni di Mosè che, nel deserto, ha di fronte il popolo che chiede pane e carne. E sono allibiti perché il compito è troppo superiore alle loro forze. In Gv 6,5 Filippo non esita a obiettare: “dove compreremo dei pani?”. È la stessa risposta di Mosè: “Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo?” (Nm 11,13). E a quel punto Mosè si lamenta: “L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: portalo in grembo, come la balia porta il bambino lattante… Perché mi hai gravato col peso di tutto questo popolo?” (Nm 11,12.11).
I discepoli e Mosè sperimentano quello che si può definire il rifiuto della responsabilità che la vita ci chiede di assumere: di famiglia, di comunità, di ministero, di lavoro. È un dire a Dio: cosa ho da spartire con questa gente, come posso andarle incontro? Parafrasando Paolo, è come se un membro del corpo dicesse ad un altro: non ho bisogno di te, arrangiati.
E qui notiamo la pedagogia finissima di Gesù: comprende lo stato d’animo dei discepoli e li coinvolge in piccole responsabilità, cominciando a spezzare il pane e darne uno a loro, dimezzato, da distribuire. In maniera graduale, senza che neppure si accorgano, passano di fatto dal rifiuto all’esultanza di chi ha preso parte ad un grande avvenimento, di chi non si è tirato indietro nelle piccole cose e ha gustato un grande prodigio. Qual è la mia responsabilità? Come la vivo?
Oggi la condizione umana e spirituale dalla quale siamo chiamati a lasciarci coinvolgere è quella di chi, pur mangiando (e mangiando a sazietà) tutto quello che, in termini di gratificazione, la società del benessere offre, di fatto finisce per sperimentare nella vita di tutti i giorni la convivenza con il nulla (Giovanni Paolo II).
Tra l’adulto Filippo e il ragazzo dei pani (se usiamo la versione giovannea del brano): ecco la posta in gioco. Ogni giorno.
Quel ragazzo rappresenta l’atteggiamento di chi manda all’aria la convinzione che la soluzione dei problemi vada cercata altrove perché di certo non è nelle nostre mani. Quanta lungimiranza in quell’accettare di disfarsi del poco di cui disponeva, senza pretendere di soddisfare esclusivamente la sua fame! Quel piccolo non condivide il superfluo: mette in gioco il necessario! È così che si edifica il corpo di Cristo.
Quel ragazzo fa comprendere che non è soltanto il denaro la risposta giusta alle situazioni: c’è qualcosa di previo da condividere, noi stessi. Finché non accade questo, le soluzioni saranno sempre e solo eventi sporadici, anche puntuali, ma incapaci di mettere radici e di avviare un nuovo corso degli eventi. La soluzione ha inizio là dove qualcuno accetta di perdere fidandosi del fatto che il Signore ama chi dona con gioia.
La predilezione per il nulla
È la povertà lo spazio necessario per il dono vero. La ricchezza mette a disposizione il superfluo (quod est super) non il necessario (quod est supra). Perciò metti a disposizione di tutti ciò che non basta neppure a te, fai sedere una folla perché comincia la distribuzione con una cesta vuota! Facciamo fatica a star dietro ad un simile modo di ragionare. La nostra aritmetica ci dice che è impossibile dividere cinque per cinquemila. Ma – vangelo alla mano – la sproporzione è superata attraverso la variante della fede. Gusti singolari quelli del nostro Dio il quale si fa riconoscere per una predilezione decisamente paradossale: la predilezione per il nulla.
I suoi occhi sembrano posarsi con predilezione su ciò che è vuoto per riempirlo di grazia. Tantissimi gli episodi dell’AT e del NT dove questo accade. A cominciare dalla vedova del tempo di Elia (1Re 17,9-16) che non aveva più nulla in casa: niente marito, niente reddito, niente cibo, niente aspettative. Il niente per eccellenza. E quando Elia le chiede da mangiare, raccoglie tutto il niente che aveva, “un pugno di farina e un po’ di olio nell’orcio”; questo lo spazio ideale perché Dio possa operare: il niente diventa tutto, diventa promessa di una vita donata e garantita da Dio, diventa una ricchezza inaspettata. Lo stesso accade ad un’altra vedova che ricorre ad Eliseo (cfr. 2Re 4,1-7): le è rimasto solo “un orcio di olio”, troppo poco per colmare un grosso debito. Ma su comando dell’uomo di Dio si fa prestare dalle vicine “vasi vuoti nel numero maggiore possibile” e i vasi si riempiono: un vuoto riempito misteriosamente da un Dio che si prende cura di chi ha ed è nulla. Proprio come nel brano evangelico: niente soldi, niente pane… E Gesù fa raccogliere il niente e lo rende cibo per tutti nel gesto della condivisione. Lo stesso a Cana: sei giare vuote, un niente che diventa tutto. Lo stesso vuoto della samaritana, del figlio prodigo, del pubblicano, di Simon Pietro che non pesca niente tutta la notte.
Il niente diventa lo spazio per la sovrabbondanza quando si giunge ad osare di più: “Sulla tua parola…”, dirà Pietro. Umanamente non c’è alcun motivo per farlo, ma mi fido della tua parola.
Sta qui tutto il mistero della santità: il niente dell’uomo riempito dal tutto di Dio. Ne consegue allora che l’unica possibilità per l’uomo di fare esperienza di Dio, consiste nell’accettazione della propria personale debolezza; non c’è cammino di sequela che non riparta continuamente con l’umile atto di “raccogliere il proprio niente” davanti al Signore misericordioso, presentarlo a lui e lasciare che su di esso cada la sua benedizione che ricrea e rinnova, per scoprire nell’umana impotenza la potenza della grazia divina.
Dobbiamo riconoscere che non è una via così frequentata nei nostri pellegrinaggi spirituali, convinti come siamo che si è discepoli del Signore, capaci di compassione come lui quando riportiamo successi da una perfezione frutto delle nostre mani.
Gesù ci dice che la sproporzione viene colmata quando il poco che si possiede e che si è, diventa il tutto che si dona e che si mette a disposizione.
La mia è una esistenza spendibile perché questo possa essere realizzato?
La Benedizione
Gesù riceve quanto gli viene messo a disposizione. I pani, anzitutto, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Poi i pesci, non frutto di fatica ma dono bell’e pronto da parte del mare. Attraverso il gesto del levare gli occhi al cielo, Gesù esprime la sua fiducia filiale nel Padre il quale sa ciò di cui noi abbiamo bisogno. Si tratta di un gesto che possono rilevare solo i suoi i quali devono essere consapevoli che quanto riceveranno dalle mani del Figlio è ciò che il Figlio ha ricevuto dal Padre. Gesù compie ciò che ogni capofamiglia faceva: benedire e ringraziare. Prendere cibo senza benedire Dio corrispondeva a un vero e proprio furto dal momento che “del Signore è la terra e quanto contiene” (Sal 24,1).
Proprio la benedizione ci ricorda che le cose belle di cui possiamo gioire oltre che usufruire sono un dono non una proprietà. Poiché sono doni, nostro compito è esserne custodi capaci di condivisione. Il pane che non viene spezzato finisce per dividere, quello diviso, invece, crea comunione. Non è forse vero, infatti, che talvolta, dove il pane abbonda manchi invece la capacità relazionale e dove, invece, esso manca, a tenere uniti sia proprio la relazione?
Cosa esprime la benedizione? La capacità di stare di fronte alla sproporzione tra il cibo di cui si dispone e le bocche da sfamare, senza mai perdere la fiducia. Non va in ansia per ciò che manca, ma loda il Padre per ciò che riceve.
A questo punto, i discepoli vengono associati allo stesso ministero di Gesù perché nessuno resti privo di ciò che la mensa del Signore ha imbandito.
C’è, però, un particolare da rilevare. I pezzi avanzati vanno raccolti. Se ricordate, la manna, invece, non poteva essere conservata perché sarebbe diventata rancida (Es 16,20). Le dodici ceste richiamano senz’altro le dodici tribù d’Israele ma richiamano pure il ruolo dei dodici: ognuno di loro riceve un canestro di pane spezzato così da nutrire la comunità a lui affidata.
D’ora in poi non si vivrà più del dono dall’alto ma del dono condiviso nel segno della carità che non esclude nessuno.