La Liturgia della Parola di questa domenica, prima ancora che a rivedere alcuni nostri atteggiamenti, è invito a rileggere la nostra immagine di Dio. Troppo spesso, infatti, la nostra immagine di Dio ha un po’ i tratti quasi di un’immagine primitiva: un Dio dotato di straordinaria potenza, di autorità incontrastata per cui, facilmente, da Dio potente diventa il Dio prepotente, che chiede di essere servito, non amato, un Dio padrone. Un Dio estraneo alla vicenda umana. Un simile essere divino, qualsiasi forma o nome abbia, prima o poi porta alla ribellione: arriva un giorno in cui per essere finalmente liberi si deve recidere il legame con questo Dio.

Per vivere e crescere Dio va ucciso, perché la rabbia reattiva porta a comportarsi davanti a Dio proprio come un adolescente rilegge il suo rapporto con il genitore. Oppure si accetta di resistere alla sua autorità finendo per obbedire ai suoi comandi, ma in attesa che egli conceda favori: una lunga servitù può ben pretendere qualche favore straordinario.

La nostra storia registra duemila anni di vita cristiana eppure non pare manchino le occasioni per scorgere anche in noi il permanere di questa primitiva immagine di Dio. Certo non è più il Dio del tuono o del fulmine, ma è ancora l’immagine del Dio potente e prepotente che ci governa. Non ci rivolgiamo forse a Dio con promesse e sacrifici? Non ci stupiamo forse se non ascolta la nostra preghiera e se non risponde alle nostre attese? Non restiamo forse delusi quando sembra che Dio, l’onnipotente per eccellenza, non faccia nulla per sollevare le sorti di un mondo sempre più sull’orlo del baratro?

Credo non facciamo difficoltà a cogliere in questi pochi tratti la trascrizione dell’atteggiamento dei due figli della parabola:

  • il figlio minore che, per essere se stesso, deve uccidere il padre (l’eredità si spartisce al momento della morte…) correndo a vivere una vita dove lui solo è sovrano incontrastato delle sue azioni per cui non deve ringraziare e tanto meno rendere conto ad alcuno;
  • il figlio maggiore che resta sì in casa, ma con l’animo rivoltoso di chi è asservito, di chi è irritato dalla presenza del padre, ancora in attesa di ricevere quanto gli spetta per esserselo sudato. “Questi cristiani del capretto!” (Turoldo).

Proviamo a cogliere insieme quali sono i tratti di Dio che la parabola ci restituisce.

Il padre della parabola, diversamente da ogni padre terreno, si lascia uccidere dal figlio che rivendica la sua parte di eredità prima del momento stabilito. La sua è una inspiegabile arrendevolezza: rispetta le scelte del figlio anche se non le condivide, perché il vero amore indica ma non impone mai. È un padre che lascia partire senza avvalersi di nessuna catena che impedisca al figlio di andarsene a cercare dove vuole lui la propria felicità. È un padre che non maledice e che non dimentica il suo legame, il suo essere padre e perciò aspetta, aspetta, in atteggiamento vigile. Noi tutti sappiamo che molto spesso il dolore indurisce e la delusione rende amari: non così il padre della parabola la cui pazienza non ha limiti e si esprime nell’andare incontro a colui che aveva atteso, si traduce nella festa del ritorno in cui non c’è posto per le recriminazioni e ancor meno per gli esami di coscienza.

Noi siamo stati abituati a leggere questa pagina cogliendo la novità nel fatto che il figlio torni. La novità è nel fatto che il padre torni al figlio. È scandaloso questo amore che non è misurato sulle prestazioni. È scandaloso ma è il vangelo, lo scandalo del vangelo. Eliminato questo scandalo dal vangelo, togli il vangelo stesso, togli la buona notizia e non ha più senso la nostra esperienza di fede.

Il padre della parabola non gode dell’asservimento: egli guarda al figlio maggiore come ad un pari (“tutto ciò che è mio è tuo”), non come ad uno che gli è sottomesso e a cui concedere favori. Per il figlio maggiore il padre è solo il suo datore di lavoro, uno da tenere a distanza tanto è vero che non ha neppure il coraggio di chiedergli un capretto, non ha ancora capito che non avrebbe neppure bisogno di domandare perché tutto quello che il padre ha è suo. E così invece di esser figlio fa lo schiavo tanto triste e serio da non permettersi neppure una festa con gli amici e da non godere della gioia del padre.

Questa parola ci sollecita a dedicare un momento a dire che cosa significa Dio per ciascuno di noi, che contenuto diamo a questo termine. Non possiamo sottrarci a questa domanda, pena la superficialità, il pressappochismo che troppo spesso caratterizza il nostro dirci credenti.

Il vangelo ci chiama a conversione: da un Dio da cui nascondersi al Dio che libera, da un Dio da servire al Dio che ci attende e che fa festa perché noi torniamo a lui.