Ci attraversa sovente la tentazione di stabilire una netta linea di demarcazione per individuare, sulla base di criteri da noi stabiliti, il dentro e il fuori, il sì e il no, chi è per noi e chi non lo è. Il vangelo di questa domenica, tuttavia, ci mette in guardia da un simile atteggiamento consegnando come criterio per stabilire una eventuale appartenenza non chissà quale sbandierata professione di fede e neanche chissà quale inveterata frequentazione di luoghi sacri, bensì la capacità di compiere ciò che sta a cuore a Dio. È la capacità di condividere i sentimenti del Signore Gesù il criterio per stabilire se compiamo o meno la volontà del Padre. Cosa amo? Cosa cerco? Cosa desidero? Cosa mi sta a cuore? Che senso può avere un culto impeccabile quando nelle nostre relazioni dilaga l’ingiustizia? Don Tonino Bello avrebbe detto: a che serve portare una croce al collo quando essa non pende sulle nostre scelte?

Corriamo tutti il rischio di vivere un cristianesimo di assuefazione e perciò di disaffezione. La fede ridotta a una tradizione: come se bastasse avere in casa i segni della fede (la croce, le immagini di santi) senza avere un cuore che ama, che accoglie. Ci lamentiamo che le nuove generazioni hanno sancito una sorta di frattura con le espressioni della vita cristiana. Ma ci siamo mai chiesti se abbiamo trasmesso con uno stile di vita la bellezza dell’essere credenti?

È il rischio di noi che siamo nati in un paese cristiano: continuiamo ad usare un linguaggio che immediatamente sembra identificarci come credenti, mentre facciamo nostro uno stile di vita che nulla ha a che spartire con ciò che più risuona sulla nostra bocca. Il dire, infatti, resta sempre ambiguo. Le parole ammaliano ma restano sempre fragili e smascherabili. Il nostro rischio è quello di costruirci un sistema di vita impermeabile al Vangelo: continuiamo ad avere Dio sulle labbra ma il nostro cuore è lontano da lui. Discutiamo di tante cose di chiesa ma sempre dando per scontato che il nostro modo di pensare sia quello giusto e le nostre scelte quelle migliori.

Gesù aveva davanti a sé persone che in nome di un ruolo (principi dei sacerdoti e anziani del popolo) sembravano difendere le prerogative di Dio e proprio in nome di ciò, rifiutano la possibilità di aprirsi a qualcosa di nuovo che Dio stesso offre loro. Vorrebbero essere loro a stabilire attraverso quali vie a Dio sia concesso parlare al cuore dell’uomo. A fronte di questo, Gesù scopre con stupore che proprio chi era segnato a vista – pubblicani e prostitute – riesce a fare il salto che persone religiose sono incapaci di compiere aggrappate come sono alle loro convinzioni. Non c’è cosa peggiore che attaccare la propria esistenza al piolo delle proprie certezze e dei propri principi senza vivere i contenuti di quei valori. In guardia, perciò, da quella presunzione che non ci permette di guardarci in modo realistico e di chiamare le cose con il loro nome!

A volte siamo convinti che la disponibilità al cambiamento sia consequenziale alla portata degli eventi con cui ci misuriamo. Il vangelo ci attesta che se essa non è previa, potresti avere davanti a te anche Gesù Cristo e nulla si smuoverebbe dentro di te. È la tua disponibilità a lasciarti interpellare dagli eventi ciò che fa la differenza. Ma là dove questa è sclerotizzata nulla può un evento in sé. Ricorderete la parabola del ricco epulone e Lazzaro. Dirà Gesù al ricco che avrebbe voluto avvertire i suoi cari rimasti ancora in vita: neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi. De Andrè avrebbe detto che l’eccezionalità di una persona sta nella capacità di interrogarsi di continuo là dove altri vanno avanti come pecore.

Imparare a mettersi in discussione. Sempre. Senza dare mai nulla per scontato. Né il né il no. Tu vivi nella misura in cui sei in grado di contraddire te stesso e di ricrederti, di commuoverti e di vergognarti ogni volta che ti lasci raggiungere dalla parola del vangelo.