Premessa «Tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo»: è una delle frasi dell’Esortazione Apostolica ‘Evangelii Gaudium’ che meglio esprime tutto il potenziale della Nuova Evangelizzazione e dell’urgenza di ricaricare di nuovi significati parole come salvezza, vita eterna, misericordia e perdono. C’è un presupposto da cui parte papa Francesco. Il messaggio che siamo …
Premessa
«Tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo»: è una delle frasi dell’Esortazione Apostolica ‘Evangelii Gaudium’ che meglio esprime tutto il potenziale della Nuova Evangelizzazione e dell’urgenza di ricaricare di nuovi significati parole come salvezza, vita eterna, misericordia e perdono.
C’è un presupposto da cui parte papa Francesco. Il messaggio che siamo chiamati ad annunciare è sempre lo stesso, dal momento che il vangelo è la persona stessa di Gesù Cristo. È lui che introducendoci nella comunione con il Padre, trasforma la vita di ognuno. Proprio per questo, però, è anche vero che il messaggio non è mai sempre lo stesso: noi, infatti, non parliamo di una teoria o di una ideologia, parliamo, invece, di una persona con la quale instaurare una relazione vitale. Per questo, pur non perdendo di vista l’obiettivo che l’incontro con Gesù Cristo postula, i modi in cui quel messaggio si incarna variano quante sono le persone e i tempi e le situazioni in cui quelle persone si trovano a vivere.
Tanti sono i temi affrontati nella EG ed è difficile dare loro una sistematizzazione. Proprio la molteplicità dei temi rischia di far perdere di vista lo spirito che anima tutto il testo e che unisce i vari argomenti: il criterio apostolico della gioia. Non si tratta di vedere quante volte ricorre questo tema (mi pare 59 volte) ma riconoscere che le continue risonanze hanno questa sorta di filo rosso della gioia tanto che il prof. Sequeri definisce questa esortazione “il poema sinfonico dell’evangelizzazione”.
Da dove nasce EG? Nasce come risultato del Sinodo tenuto a Roma nel 2012 avente per tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».
Perché un simile tema? Perché pur nella varietà delle culture in cui la Chiesa si trova a vivere, da tutte le parti emergono chiari alcuni punti critici:
«debolezza della vita di fede delle comunità cristiane, riduzione del riconoscimento di autorevolezza del magistero, privatizzazione dell’appartenenza alla Chiesa, diminuzione della pratica religiosa, disimpegno nella trasmissione della propria fede alle nuove generazioni» (Instrumentum laboris 48).
Di fronte a una tale situazione il tono non può che essere di preoccupazione (cfr. n. 49). Lo smarrimento è palpabile dentro e fuori la Chiesa, tanto è vero che «il risultato di tutte queste trasformazioni è il diffondersi di un disorientamento che si traduce in forme di sfiducia verso tutto quanto ci è stato trasmesso circa il senso della vita e in una scarsa disponibilità ad aderire in modo totale e senza condizioni a quanto ci è stato consegnato come rivelazione della verità profonda del nostro essere. È il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo» (n. 7)
È significativo il fatto che proprio a fronte di una tale situazione i Padri non si siano sentiti di avanzare proposte concrete o propositiones. Proprio questo blocco ha rivelato che non mancano le competenze, mancano piuttosto le energie spirituali idonee a far fronte a una simile impasse. È per questo che papa Francesco ha voluto assumersi il ruolo di accompagnatore spirituale nello stare di fronte a questo nuovo scenario che interpella tutte le nostre comunità cristiane. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il papa dedichi ben 25 paragrafi all’omelia e alla sua preparazione. Ciò che egli si prefigge è dare uno scossone invitando a rileggere e a convertire ciò che è legato ad una circostanza storica. Per questo precisa che è necessario: «non solo riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere quelle dello spirito cattivo» (EG, n. 51). C’è un discernimento da operare a tutti i livelli, dal modo in cui celebriamo al modo in cui annunciamo, dal modo in cui esercitiamo la carità a quello in cui stiamo di fronte a questo contesto culturale.
L’invito è quello ad uscire dal ripiegamento naturale che una simile situazione può indurre e da discorsi autoreferenziali. È a questo proposito che il papa parla della necessità dell’uscita e del rischio se è vero che abbiamo ancora qualcosa di vero da dire a questo nostro mondo.
La gioia della Pasqua
La Chiesa è il frutto maturo del mistero pasquale, per questo non può abdicare impunemente alla vocazione alla gioia. Ci può essere, forse, una comunità cristiana più smarrita di quella apostolica durante la passione e morte del Signore Gesù? Dopo due giorni scopre che il suo Signore è risorto: quale gioia deve aver pervaso gli animi di tutti che faticavano a credere a un simile evento! Faceva quasi paura quella gioia che aveva invertito direzioni e passi: basti pensare ai due di Emmaus la sera di Pasqua che a motivo del buio insistono perché quel viandante si fermi con loro. Una volta riconosciuto non hanno paura di rifare al buio il viaggio di ritorno per andare a dire cosa era accaduto lungo la via.
È su questo punto che il papa intende far leva: riprendere il contatto con questa sorgente così da permettere l’accesso a quanti il Signore ci dona la grazia di incrociare sul nostro cammino. Questo è il nostro proprium. E tuttavia, senza questo contatto con il mistero pasquale, tutto si ridurrà a tecniche di comunicazione pastorale. Noi siamo coloro che per grazia hanno qualcosa da dire nei confronti di un mondo che sperimenta non poche volte desolazione e morte. Qui emerge con forza la differenza cristiana: “noi non siamo come quegli altri che non hanno speranza” (1Ts 4,13). Le tecniche della comunicazione pastorale, per quanto preziose, restano sempre nell’ordine dell’accessorio, non dell’essenziale: per questo non sempre hanno il potere di incidere sulla vita delle persone. La gioia e la speranza che animano i discepoli attestano di un Dio non solo credibile ma affidabile. Vale davvero la pena consegnare la propria esistenza a questo Dio?
Forse dovremmo recuperare la figura dell’indemoniato di Gerasa che si chiamava “legione”. A lui il Signore affida un compito: “va dai tuoi fratelli e lì annunzia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato” (Mc 5,19). È vero: il discepolo è un povero che va a dire ad un altro povero dove entrambi potranno trovare pane per la lor fame.
Noi sappiamo che la Chiesa nasce dal mistero della Pasqua: ma non basta saperlo. È necessario che la vita dei singoli e delle comunità sia rischiarata da questa luce.
Ecco perché il papa individua nella gioia del Vangelo il criterio di verifica per tutto ciò che viviamo e per le iniziative che intraprendiamo. Quale gioia? Quella che non ha nulla a che spartire con un sentimento passeggero di piacere o di euforia. È la gioia che permane proprio mentre attraversi la sofferenza e la morte; è la gioia che nasce dalla consapevolezza che nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. Quante persone attorno a noi vivono la loro pasqua senza mai maledire il giorno in cui sono nate.
Il contrario di questa gioia non è il dolore, non è la prova, non è neppure la persecuzione: il contrario, secondo Francesco, è quel senso di scontentezza cronica che attraversa il cuore dei discepoli, «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (277). È questa tristezza ad avvelenare il cuore dell’uomo ed è il contrario di ciò che Dio desidera per i suoi figli: “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Il frutto maturo della fede è la gioia di sapere di stare a cuore a Dio. Aver gustato questa gioia è l’antidoto per quella insoddisfazione profonda tanto spesso declinata come chiusura in se stessi. È vero: talvolta pur di non accettare il rischio di uscire da se stessi si preferisce crogiolarsi in quell’apatia che caratterizza tante nostre giornate. Della serie: “sarà pure una valle di lacrime ma ci si piange tanto bene”, come ripeteva la vecchia della barzelletta.
Quando Gesù entra nella sinagoga di Nazaret e si dà un programma pastorale afferma con chiarezza che cosa sta in cima ai pensieri di Dio. Sarebbe interessante passare al vaglio di quella pagina i nostri piani pastorali.
Nelle affermazioni programmatiche di Gesù non un discorso morale. In Gesù Dio si dà quattro obiettivi, che non riguardano lui ma l’uomo:
- desidera un uomo capace di gioia (proclamare ai poveri la lieta novella),
- un uomo capace di esprimersi in libertà (ai prigionieri la liberazione),
- un uomo capace di vedere, di scrutare le profondità (ai ciechi la vista),
- un uomo capace di rimettersi ancora una volta in cammino (rimettere in libertà gli oppressi).
Ecco che cosa sta a cuore a Dio. Ecco che cosa desidera Dio. Ecco che cosa c’è in cima ai pensieri di Dio. Ecco cosa deve stare a cuore alle nostre comunità cristiane.
Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di tornare a questa scena evangelica per verificare se abbiamo colto o meno l’essenza del vangelo. È su questo programma che la fede della comunità cristiana, la mia fede, dunque, va misurata!
Per tutti quegli uomini e donne che ormai non si aspettano più nulla, forse neppure da Dio, per loro viene il Signore Gesù e li sottrae alla disperazione. Per loro viene Gesù e senza chiedere il permesso ad alcuno, sabato o non sabato, li restituisce al progetto di Dio, quello delle origini, quando ogni cosa era cosa buona.
Certo, questo programma di Gesù ha un indubbio carattere eversivo che scandalizza i devoti di allora e di sempre.
In Gesù Dio si è avvicinato all’uomo con una prossimità inaudita, radicale persino nei confronti di samaritani eretici, di donne di dubbia reputazione, di persone segnate da malattie infamanti. La confidenza che Gesù dimostra con queste persone sta ad attestare che Dio è questo e precisamente questo. Mai stato diverso. Se mai lo è stato, lo è stato per coloro che hanno preferito rimanere fedeli alla proiezione del loro immaginario su Dio e non hanno voluto accogliere la rivelazione che Gesù ha reso di lui.
Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. «Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché “nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore”» (n. 3).
Francesco non ha paura di riconoscere ad alta voce che proprio coloro che Dio ha chiamato ad essere annunciatori, sono i primi a non vivere l’Evangelii Gaudium. Per un esame di coscienza proporrei di rileggere i nn. 76-109 laddove il papa chiama per nome le Tentazioni degli operatori pastorali.
Si tratta dell’accentuazione dell’individualismo, della crisi d’identità e del calo di fervore: «tre mali che si alimentano l’uno con l’altro» (EG 78). E poi, dell’accidia egoistica (EG 81-83), del pessimismo sterile (EG 84-86), della mondanità spirituale (EG 93-97), dell’antagonismo interno (EG 98-101). Da qui l’importanza di aprirsi a «relazioni nuove generate da Gesù Cristo» (EG 87-92)
C’è poi un altro elemento che diventa criterio per verificare se abbiamo gustato la gioia del vangelo ed è la disponibilità ad entrare nella logica del dono. Perché questo accada è necessario un serio cammino di decentramento arrivando a non fare mai il calcolo di ciò che si dà e di ciò che riceve. Il dono continuo di sé è la cartina di tornasole della centralità di Gesù Cristo nel cuore del credente.
“La vita cristiana è tutta una esegesi della kenosi (abbassamento, svuotamento) di Cristo” (Isacco Siro). La vita cristiana, la mia vita dunque, narrazione di un Dio che si abbassa, svuota. Consapevoli che la vita si guadagna donandola, si ottiene spendendola, si conquista affidandola.
«Di fatto, coloro che sfruttano di più le possibilità della vita sono quelli che lasciano la riva sicura e si appassionano alla missione di comunicare la vita agli altri. […] la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo» (n. 10).
In fondo, è come se avessimo paura che la vita donata vada perduta: l’annuncio del Vangelo vorrebbe permeare ogni ambito della nostra storia e tuttavia incontra non poche resistenze perché risulta uno scandalo rimosso con fatica l’annuncio che si possa essere felici anche nella prova.
«La tentazione appare frequentemente sotto forma di scuse e recriminazioni, come se dovessero esserci innumerevoli condizioni perché sia possibile la gioia» (n. 7).
«Tutti sappiamo per esperienza che a volte un compito non offre le soddisfazioni che avremmo desiderato, i frutti sono scarsi e i cambiamenti sono lenti e uno ha la tentazione di stancarsi. Tuttavia non è la stessa cosa quando uno, per la stanchezza, abbassa momentaneamente le braccia rispetto a chi le abbassa definitivamente» (n. 277).
Entrare nella gioia del Vangelo è accettare di misurarsi con la porta stretta ma non per restarne impigliati e bloccati quanto piuttosto per uscirne ritrovando motivazioni nuove.
L’EG rivela così la propria natura profonda di invito che è al tempo stesso indicazione di un compito, rivolto a ciascun credente, a ciascuna comunità cristiana e alla Chiesa nel suo insieme: uscire dall’autoreferenzialità e dalle sterili contrapposizioni per assumere una spiritualità dell’impegno radicata nella gioia del Vangelo e di sentirsi popolo.
Evangelizzare con spirito
Francesco non parla mai di “nuova evangelizzazione”. L’aggettivo ricorre pochissimo e viene usato per indicare “nuovi processi di evangelizzazione” e “nuova tappa evangelizzatrice”. Al papa sta a cuore l’evangelizzazione con spirito.
Evangelizzatori con Spirito è il contrario di una attività pastorale che parte da motivazioni umane. Chi sono gli evangelizzatori con spirito? Sono quelli che pregano e lavorano, accolgono e donano. Solo una seria vita spirituale garantisce un senso cristiano all’attività di annuncio: “La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più […] La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore» (EG 264).
L’evangelizzatore con spirito è colui che non perde mai la memoria dello sguardo del Signore che un giorno si è posato su di lui; per questo cerca tutti i modi per non distogliere il suo sguardo da quello del Signore.
«Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3).
Conversione pastorale
Da questo duplice movimento di accoglienza e di dono scaturisce l’auspicata conversione pastorale. Francesco ne ha parlato in occasione del suo viaggio a Rio per la GMG durante l’incontro con i vescovi del CELAM. Egli distingue tra dimensione paradigmatica e dimensione pragmatica della missione.
La dimensione paradigmatica significa mettere in chiave missionaria tutte le attività delle chiese particolari. La dimensione pragmatica ha a che vedere con gli atti della missione. Se non si realizza la dimensione paradigmatica non avviene, per Francesco, conversione pastorale. Ciò che si richiede è «generare la coscienza di una Chiesa che si organizza per servire tutti i battezzati e gli uomini di buona volontà».
«Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”» (EG 25).
Le scelte pragmatiche vanno inserite in questo più ampio contesto paradigmatico così da “trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia (EG 27).
Per una Chiesa che vive una conversione pastorale e missionaria evangelizzare occorre un ripensamento di tutti gli aspetti della vita della Chiesa: istituzioni, modalità di annuncio, consuetudini. Seguendo qualche passaggio di EG si esemplificherà:
- la parrocchia deve essere più capace di vicinanza, di comunione, di missione (EG 28);
- l’annuncio deve essere compiuto senza l’ossessione di trasmettere una moltitudine di dottrine, ma deve concentrarsi su ciò che è essenziale, ossia sul kerygma (EG 35);
- le consuetudini della vita cristiana che non sono direttamente legate al nucleo del Vangelo e che oggi non rendono più lo stesso servizio di un tempo in ordine dalla trasmissione del Vangelo vanno riviste (EG 43).
Perché questa scelta?
È da poco finito quello che si definiva cristianesimo sociologico, quel cristianesimo in cui cristiano e cittadino coincidevano e nel quale non si poteva non essere cristiani: la fede ereditata, e talvolta scontata. Camminiamo sempre più velocemente verso un tempo nel quale le persone, immerse in un pluralismo culturale e religioso, sceglieranno se essere cristiani o meno, perché la cultura attuale non trasmette più la fede, ma la libertà religiosa. La risposta inadeguata a questa situazione è quella della nostalgia, che pastoralmente si traduce nel moltiplicare l’impegno pastorale per riportare le cose riguardanti la fede a come erano prima, quando tutti e tutte si riferivano alla chiesa. Si tratta di una generosità pastorale mal orientata. Se la Chiesa continua a rimanere fissata su ciò che le sta alle spalle, sarà trasformata ben presto in una statua di sale (Gn 19,26). La direzione giusta è invece quella di una pastorale della proposta, di una comunità che nel suo insieme, in tutte le sue espressioni e dimensioni, si fa testimone del Vangelo dentro e non contro il proprio contesto culturale.
La nuova situazione socio-culturale esige che torniamo ad essere lievito: siamo chiamati ad essere minoranza. Il rischio può essere o il costituirci in minoranza setta o in minoranza contro. Il futuro della fede cristiana si gioca proprio qui: sull’accettare di ridiventare lievito semplicemente. Francesco chiede di essere una minoranza per, a favore della pasta. Dobbiamo riappropriarci di ciò che la Lettera a Diogneto afferma: «i cristiani sono, nel mondo, ciò che è l’anima nel corpo» (Lettera a Diogneto, 6).
Peraltro permane una sorta di ambivalenza: continuano alcune abitudini religiose e nel contempo la mentalità è secolarizzata. Proprio questa diventa per noi fatica e risorsa pastorale: valorizzare quanto permane di tradizione perché si passi da una fede frutto di convenzioni a una fede espressione di convinzioni.
Le crepe
Nessuno di noi può programmare il tempo opportuno per l’annuncio. Non a caso il seminatore del vangelo adotta la logica dello spreco: semina dappertutto in abbondanza. Tuttavia, anche per la nostra esperienza forse, sappiamo che il tempo opportuno è quello in cui si aprono delle crepe nella nostra esperienza di vita. L’annuncio cristiano si esprime in tutta la sua potenzialità non nei tempi di stabilità affettiva, fisica, economica ma quando gli equilibri sono destabilizzati. Siamo soliti chiamare questi momenti “crisi” dal momento che percepiamo una discontinuità nell’andamento ordinario delle cose. la crisi può accadere per un di più positivo, un amore, una nascita, qualcosa che sorprende o per un di più negativo, una prova, una malattia, un tracollo finanziario. La crisi è sempre una possibile soglia di accesso alla fede. La vita e la morte si stanno interpellando: il mistero pasquale ci visita molto più spesso di quello che immaginiamo. I passaggi sono il tempo favorevole per l’annuncio. Perché accada sono necessari fratelli e sorelle che nelle pasque umane siano in grado di annunciare la pasqua del Signore.
Ce lo ricorda Paolo: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rm 10,13-14).
Cosa annunciare?
«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o “kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale… Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (EG 164).
Di conseguenza vengono riviste tutte le priorità dell’evangelizzazione:
- l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale;
- la gioia del dono precede l’impegno della risposta;
- l’ascolto e la prossimità precedono la parola e la proposta.
Alla luce delle Scritture noi possiamo dire che il primo annuncio è certamente un soccorso interpretativo. I racconti postpasquali lo attestano. Basti pensare al “soccorso simbolico” del risorto ai due di Emmaus, soccorso che avviene aiutandoli ad interpretare i fatti recenti di Gerusalemme aprendo loro le Scritture.
Poi si va più oltre: è l’annuncio che dentro le morti umane il Signore morto e Risorto si presenta come il Salvatore, colui che libera dalla morte. Il kerigma non aiuta solo a trovare un senso nei passaggi della vita, annuncia una Presenza che tira fuori e salva. Afferma che nel Crocifisso Risorto la morte non ha più l’ultima parola. Questo è il di più del kerigma della fede rispetto ad una prospettiva di accompagnamento pedagogico delle persone, un di più non in contrasto con tale accompagnamento umano, ma in un rapporto di continuità e di eccedenza con esso.
Gesù Cristo non è solo il compagno di viaggio dell’uomo (colui che si fa vicino e spiega), è soprattutto il suo Salvatore (colui che assume e salva). È chiaro che questo è anche il salto della fede: l’affidamento o meno di se stessi a tale annuncio.
Lo stile missionario
Si tratta di “evangelizzare in maniera evangelica” (A. Fossion). Questo stile può essere indicato con tante sfaccettature. Ne sottolineo tre.
– La sospensione del giudizio: speranza
Il primo tratto dello stile dell’evangelizzazione è la sospensione del giudizio. Ogni persona è adatta al vangelo a partire dalla situazione nella quale si trova. È amata da Dio a prescindere. L’annuncio parte dalla partenza e non dal traguardo. E punta sulla speranza intesa come scommessa affidabile.
– Fuori da ogni contratto: gratuità
L’annuncio non chiede condizioni preliminari. È unilaterale. È donato in atteggiamento di assoluta gratuità. A monte, l’annuncio chiede di uscire da ogni prospettiva di cristianità, nella quale si esigevano alcune condizioni morali per essere cristiani. A valle non calcola risultati, non fa censimenti. Lascia che la parola donata porti il suo frutto nella misura della possibilità della libertà umana e dell’azione dello Spirito Santo. Per questi motivi il vangelo rende l’evangelizzatore totalmente libero.
– La testimonianza: santità
Il terzo tratto dello stile dell’evangelizzazione è sicuramente la santità (personale, ecclesiale) intesa come corrispondenza tra forma e contenuto (C. Theobald). La Chiesa e ogni singolo testimone sono nella loro vita la visibilità (e dunque la prova della verità) del contenuto che annunciano. Tale esigenza è insita alla fede, perché il Gesù Cristo annunciato è l’icona stessa della santità di Dio, in quanto nella sua vita c’è stata perfetta autenticità, perfetta corrispondenza tra contenuto e forma del suo annuncio. Riportata alla Chiesa (e a ogni singolo credente) tale santità resta una “corrispondenza salvata”, quindi mai compiuta. In questo senso possiamo dire che la debolezza di chi annuncia è a sua volta testimonianza della gratuità dell’annuncio.
L’omelia
Per Papa Francesco l’omelia riveste un’importanza fondamentale. Nell’intervista concessa al Direttore de «La Civiltà Cattolica» l’aveva definita come «la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo, perché chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dove è vivo e ardente il desiderio di Dio».
Per Francesco il predicatore è «un contemplativo della Parola e anche un contemplativo del popolo» (EG 154). Egli contempla la Parola, ma anche la situazione specifica delle persone alle quali si rivolge, le loro necessità, le loro domande: «Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone» (EG 155).
Circa il modo di tenere una omelia, sono necessarie la vicinanza cordiale, la qualità del tono di voce, la mitezza dello stile delle frasi, la gioia dei gesti.
Oggi la pedagogia della comunicazione non trascura di sottolineare per chi predica e per l’omileta l’importanza di costruire il messaggio sapendo bene individuare contenuti, immagini e pure sapendo coinvolgere gli uditori non solo stimolando la loro riflessione, ma pure muovendo i loro sentimenti. Tutto ciò sulla base di una credibilità di fondo, ossia una testimonianza viva di valori e significati vissuti in prima persona. Molto opportunamente, dunque, in EG 266 Francesco ricorda che è in grado di annunciare Cristo e di sostenere la fede dei fratelli soltanto chi ha fatto esperienza di Gesù:
“Non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è lo stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione […] una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno”.
“Annunciate sempre il Vangelo, se necessario anche con le parole” (Papa Francesco ai catechisti, settembre 2013, riprendendo un’espressione di san Francesco). Le parole sono importanti, lo sappiamo per esperienza. Quando è il momento non devono mancare, perché hanno una forza sacramentale. Ma spesso la parola più profonda e l’unica possibile è quella di una presenza che custodisce per l’altro la speranza. L’annuncio implicito che si esprime nella prossimità ci fa custodi di speranza per coloro che in quel momento, in quel passaggio di vita non sono in grado di sperare. Questa custodia è il kerigma. È per questo che la carità è la parola ultima dell’evangelizzazione, non un passaggio per arrivare ad essa. La carità è la forma che l’evangelizzazione prende quando essa parte dalle periferie e non dal centro.
Conclusione
EG ha il pregio di guardare con speranza all’attuale contesto culturale, per questo segna una sorta di discontinuità circa il tema dell’evangelizzazione. Francesco non è ingenuo, come qualcuno potrebbe pensare. Egli punta su quanto lo Spirito sta già facendo e su quanto gli lasciamo fare nei nostri cuori. A fronte di una situazione ecclesiale depressa egli recupera il senso che ha per ogni discepolo l’aver incontrato il Signore: se è lui il tuo tesoro e la tua perla preziosa, è qualcosa che non puoi tenere per te. Questa è la “missione” nella mente di Francesco e per questo egli chiede che tutto di noi (percorsi e strutture) renda manifesto che tutti possono essere raggiunti dall’amore di Dio. Se questo è l’obiettivo, tutto nella chiesa abbisogna di essere collocato al posto giusto, non assolutizzando l’accessorio ma privilegiando l’essenziale.