Ho chiesto alla Madre del Figlio di Dio di prenderci per mano e di farci contemplare ciò che è accaduto in quel momento assurdo eppure assai fecondo che è stata la sua Passione e Morte. Mi ha sempre colpito il fatto che la nostra devozione abbia riconosciuto in Maria una sorta di canale privilegiato per …
Ho chiesto alla Madre del Figlio di Dio di prenderci per mano e di farci contemplare ciò che è accaduto in quel momento assurdo eppure assai fecondo che è stata la sua Passione e Morte.
Mi ha sempre colpito il fatto che la nostra devozione abbia riconosciuto in Maria una sorta di canale privilegiato per tenere viva la speranza quando l’abbiamo vista minacciata nella nostra o nell’esistenza di persone a noi care. Quante volte mi è capitato di “spiare” lacrime furtive di uomini e donne che nel silenzio di questa nostra chiesa, inginocchiati, racchiusi nel loro dolore, hanno consegnato a Maria la loro pena e la loro apprensione! Perché? Perché questo feeling che si riannoda tutte le volte in cui un dolore visita la nostra vita? Perché sappiamo che se è vero che il cuore di una madre è senza transenne, lo è molto di più quello di Maria. Tutto ciò che le capita attorno, diventa parte di sé. Accadde un giorno a Cana, accade ogni volta che qualcosa minaccia la nostra gioia e mina la nostra speranza: “Non hanno più vino”, continua a ripetere al Figlio.
Noi ricorriamo a lei nell’ora della prova perché siamo fermamente certi che ella può capire cosa si passa quando stringi un figlio morto tra le braccia. Ricorriamo a lei perché sa cosa significa conoscere l’amara esperienza di una vita spenta prematuramente. Ci sono prove che segnano la mente, il cuore, il corpo e Maria le ha conosciute. Quale madre non sarebbe disposta a prendere su di sé la croce che è toccata a un figlio? Può sembrare una follia, ma quale madre non lo farebbe, a meno che non abbia perso il senno?
Ben a ragione san Giovanni Crisostomo scrisse: “La donna, anche se deve morire una volta sola, ha paura per tante morti. E anche se possiede un’anima sola, si preoccupa per tante anime. Trema per il marito, trema per i figli. Più la radice ha messo germogli, più aumentano le trepidazioni”. Noi sentiamo Maria come madre perché percepiamo che la nostra trepidazione è anche la sua. D’altronde, proprio mentre Gesù prendeva congedo da noi, l’ha lasciata a noi come madre. Nulla avrebbe potuto arrestare il suo affetto materno e per questo avrebbe continuato a pronunciare il suo “sì” al Padre, ogni volta che uno dei suoi figli avesse conosciuto l’ora dell’amarezza e dell’abbandono. Ella esaurirà il suo compito solo quando l’ultimo dei suoi figli avrà smesso di avere bisogno della sua premura: ovunque ci sarà un dolore da compatire, Maria non cesserà di essere madre e non smetterà di soffrire per i nostri errori e per le nostre lacrime come per le nostre chiusure e per le nostre illusioni.
Quando l’angelo le aveva portato l’annuncio della nascita del Figlio di Dio, forse non aveva ancora messo in conto che quel sì significava anche accettare di presiedere alla nascita dei figli di Dio e così da madre di un Figlio unico, ha finito per ritrovarsi madre di una interminabile schiera di uomini soli. Chissà che cosa le sarà costato di più, se l’essere madre del Figlio di Dio che le ha procurato ben sette spade trapassate nell’anima, o l’essere madre dei figli di Dio che le ha procurato uno stillicidio continuo!
Pur avendo ricevuto da Dio una vocazione singolarissima come non ci sarà eguale nella storia, Maria non ha mai smesso di essere una di noi. Non c’è categoria umana che non la senta Madre sua: apostoli, martiri, confessori della fede ma anche afflitti, peccatori, infermi, come ci ricordano le interminabili litanie della sofferenza o della maturità umane. Ha conosciuto per condizione e per scelta lo stile dell’ultimo posto.
Giovanni la presenta come piantata: “Stava presso la croce”, come se quello fosse il suo luogo abituale, come chi è presente ad un appuntamento a cui non può mancare. Essere madre, la più grande ricchezza, ma anche la peggiore prigionia: ti liberi da tutto, ma non dall’amore. Per questo è lì. È vero: per le madri è come se i figli non crescano mai completamente.
Riesce a stare accanto al dolore solo chi ha accettato di compiere il pellegrinaggio più difficile: quello di andare oltre le ragioni della ragione, quello di chi, lasciandosi guidare dal cuore, abbraccia senza attendere il contraccambio e comprende senza pretendere.
Aveva ragione don Milani quando diceva che esistono due tipi di parto: se per il primo è necessario l’apparato genitale, il secondo, invece, non può avvenire se non mediante l’amore, la cura, la parola, i sacramenti. Chi è più madre? Chi ha donato i cromosomi al figlio o chi gli ha plasmato l’anima aiutandolo a scoprire il senso della vita?
Ecco il compito che il Figlio Gesù affida alla Madre sua: e questo compito durerà finché sulla terra ci sarà qualcuno da amare aiutandolo a fare della sua vita un dono. Come lei. Ma questo è anche il compito affidato a ciascuno di noi.
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (I. Calvino, Le città invisibili, p. 164).