Aveva un pedigree di tutto rispetto il tale che si affretta a raggiungere Gesù, non era certo uno sprovveduto. Sin da bambino aveva collezionato tante esperienze eppure, sentiva che c’era ancora una casella da occupare, una figurina da aggiungere al suo album. Di maestri ne aveva ascoltati tanti, gli mancava il parere del “Maestro buono”, come egli stesso lo definisce.

L’annotazione con cui si apre il vangelo è di una precisione finissima: Gesù è per strada, in cammino verso Gerusalemme. È evidente, perciò che il tale, per corrergli incontro sta voltando le spalle alla meta che attende Gesù e ogni discepolo. Il suo problema, infatti, sarà proprio quello di compiere una vera e propria inversione, come attesta il seguito.

“Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. A quale gruppo devo iscrivermi? Quale percorso spirituale devo scegliere? Chi devo seguire? Non era certo uno che scherzava: puntava alto. Tuttavia, per quanto non giocasse a fare l’uomo o il cristiano, evidentemente era un insoddisfatto: non gli bastava quello che finora aveva portato avanti se si ritrovava una fame che nessuna di quelle cose era riuscita a colmare. Faceva cose cristiane, diremmo noi oggi, ma non aveva mai incontrato veramente Gesù Cristo. Può accadere, eccome.

Per questo si rivolge all’unico che potrebbe avere la risposta giusta. E, invece, si sente incalzare da una domanda: “Perché mi chiami buono?”. Cioè: perché fai tutto quello che fai? Perché sei qui? Cerchi una conferma o una verità sulla tua esistenza? Quello che devi fare lo sai: “osserva i comandamenti”. E c’era bisogno di venire da te per sentirmi rispondere ciò che so già? Le solite cose le ho sempre fatte. Ma tutto questo cos’ha da spartire con la mia vita e con quello che sento di più vero dentro di me?

Parlando con dei preti, tempo fa, ci si chiedeva che cos’è che ad un tratto non funziona se nel cammino formativo qualcuno poi torna indietro o, se resta, finisce per adeguarsi. Il problema – riconoscevamo – è che, il più delle volte, viene prima l’idea del prete e di come esserlo, più che il rapporto con Gesù Cristo. Il rapporto con Gesù Cristo, infatti, potrebbe anche farmi capire che non sono chiamato ad essere prete. Un’immagine costruita della vita, della fede, della vocazione, proprio come nel caso del tale del vangelo. Tanto è vero che quando quell’idea è stata intaccata, o si è scelto di tornare indietro o ci si è fatti un progetto su misura in cui alla fine Gesù Cristo non c’entra nulla.

Quando Gesù gli dice l’unica cosa da fare, cioè non fare nulla ma accettare di essere guardato dentro con amore, con benevolenza, scappa via. È troppo, non ci sta. Per quanto lo si desidera, è difficile lasciarsi amare, mettersi a nudo di fronte ad un altro.

La vita eterna, la vita vera, quella piena è ciò che Dio da sempre vuole partecipare a tutti noi come dono. Essa non è ciò che ottieni quando, finalmente, sei riuscito a compiere una sorta di corsa agli ostacoli per cui sei certo di aver raggiunto il traguardo.

“Questa è la vita eterna: conoscere te, o Padre, e colui che hai mandato, Gesù Cristo tuo Figlio”.

Non cose da fare, dunque, e neppure cose da avere. La vita vera, quella che non verrà mai meno è sapere che volto ha il tuo Dio e cosa rappresenti tu per lui. E tu per lui sei una passione d’amore se è vero che ad un tratto Gesù ha avuto bisogno di fargli toccare con mano l’essere amato: “fissatolo, lo amò”. Questa è la vera sapienza, il gusto della vita: cedere allo sguardo di un Dio di fronte al quale non hai più bisogno di accampare titoli e meriti. Finora era convinto che sapienza fosse arrivare per primo dal maestro, inginocchiarsi bene, recitare la formula giusta, saper rivolgere la domanda più pertinente. Niente di tutto questo.

Stranamente, però, la storia non è di quelle a lieto fine. Colui che poteva tutto nei confronti della malattia, dei demoni, persino della morte, non può nulla di fronte a un cuore schiavo dell’accumulo e del bisogno di sicurezza e di conferme. Quel tale ha preferito altro e Gesù Cristo ha accettato di non essere stato scelto nonostante tutto lasciasse ben sperare.

La bella vita o una vita bella? Continuare a chiamare qualcuno “buono” o fargli spazio?

Ecco ciò che siamo chiamati a discernere fino all’ultimo giorno.