Sembra proprio non ne azzecchino una i Dodici. Collezionano una figuraccia dopo l’altra. Prima ci pensa Pietro che, nel bel mezzo della sua professione di fede, si sente chiamare satana perché avrebbe voluto distogliere il Maestro da ciò che lo attendeva a Gerusalemme. Poi ancora tutti gli altri mentre, lungo la via, non avevano trovato di meglio che stabilire chi di essi fosse il più grande. Stavolta è il turno di Giovanni, il discepolo amato. Animato da santo zelo vorrebbe impedire a qualcuno di tenere viva la vita solo perché non è dei “nostri”, non è in regola. Come se, per compiere, il bene occorresse il certificato di idoneità per farlo. Nessuno ha l’esclusiva degli eventi.
Non perdere tempo a invidiare, caro Giovanni, lo rimbrotta Gesù. Riconosci il bene da qualunque parte esso provenga e, se puoi, fa’ ancora meglio. Il bene è bene anche se non ha la tua firma.
Impara a gioire di ciò che viene promosso in nome dell’uomo; rallegrati per i risultati raggiunti anche senza il tuo apporto; gioisci quando qualcuno sta nella vita non ostacolando i sogni altrui anzi, incoraggiandoli e sostenendoli. Il vangelo ricorda la vicenda di un centurione pagano preoccupato della sorte del suo servo e i capi della sinagoga che intercedono presso Gesù, cosa mettono in luce di lui? Di averli aiutati a costruire la sinagoga. Eppure era un pagano.
C’è qualcosa, infatti, che viene prima della fede e dell’appartenenza al gruppo dei “nostri” ed è la capacità di custodire e promuovere il bene, di costruire armonia, di lenire le ferite che sono bisognose di cura.
Non può essere contro di noi chiunque aiuti il mondo a fiorire. Non c’è frammento di bene di cui Dio non tenga conto se è vero che aver dato un bicchiere d’acqua a chi ha sete è un vero e proprio lasciapassare. È di Dio chiunque abbia a cuore la vita, l’uomo, la storia. Se solo cominciassimo dal bicchiere d’acqua, ossia dal bene possibile qui, ora, il mondo si popolerebbe di innumerevoli segni della presenza di Dio. Chi di noi non può dare un bicchiere d’acqua? Chi di noi, cioè, non può essere artefice di un bene possibile e necessario?
Non è dei nostri, è la tentazione di ogni gruppo stabilire chi abbia diritto a fare qualcosa e chi no. Gesù, invece, l’uomo oltre ogni barriera, ha come progetto quello di entrare in comunione con tutto ciò che vive. Per questo stabilisce che il regno del Padre suo, cioè il modo di intendere il mondo da parte di Dio, non è appannaggio di un’anagrafe religiosa o di una istituzione, fosse pure quella ecclesiastica.
Non poche volte Dio si serve di abusivi ai nostri occhi pur di non impedire il suo sogno di vedere il mondo finalmente riconciliato. Era accaduto già con Eldad e Medad: era stato Dio stesso a prendere un po’ della forza di Mosè per parteciparla anche a loro due assenti quando gli anziani erano stati convocati. Quei due parlano di Dio in mezzo alle cose di ogni giorno mentre le labbra degli altri si sono seccate. Se solo ci facessimo scopritori attenti dei linguaggi diversi che Dio ancora oggi usa per parlarci! Se la notte di Pasqua arriveremo addirittura a cantare “felice colpa”, cosa sta dicendo alla mia vita quello che sto vivendo e che volentieri ricaccerei via perché non corrisponde ai miei desiderata?
Cosa intendeva Gesù con quelle ammonizioni riguardanti alcune parti del corpo? Non era certo il talebano di turno che annuncia mutilazioni. Si tratta di metafore per non fallire nella vita. A che servono le mani se non per donare? A che servono i piedi se non per affrettare i passi verso qualcuno? A che serve un occhio se non per gettare luce e riconoscere tutto quanto porta la firma stessa di Dio?
Penso così alle tante parole che Dio pronuncia fuori dai nostri schemi e dalle nostre sacrestie e che fatichiamo a riconoscere e ad accogliere. E penso, poi, alle tante parole logore che continuiamo a pronunciare nei nostri ambienti che non interpellano più nessuno. Qual è allora la linea di confine? Non l’appartenenza registrata, anzitutto, ma il cuore che si lascia toccare dall’opera stessa di Dio, dentro e fuori la Chiesa.