In occasione delle esequie del compianto preside, tanti hanno messo in luce con singolare maestria e sincero affetto ciò che la sua persona ha rappresentato sia nell’ambito politico sia in quello culturale e familiare.

A un mese dalla sua morte, vorrei provare ad accostare l’uomo di fede che è stato il preside che ho avuto modo di frequentare sin da quando, arrivato in città, unitamente alla Cattedrale mi fu affidata anche la parrocchia di san Michele.

Qualche giorno dopo le esequie, in un significativo incontro con la carissima Marianna, ho avuto conferma della misura della fede dell’uomo Lello a me già nota, peraltro, grazie alle amene conversazioni della domenica mattina quando, dopo la messa, ci si intratteneva per il caffè. In quegli incontri era piacevole ascoltarlo non solo per le tante cose conosciute che amabilmente condivideva con noi, ma soprattutto perché traspariva l’uomo di studi che era capace di rendere ragione della sua fede.

Nei momenti di sconforto o di dubbio, Lello era solito chiedere luce alla Parola di Dio che apriva così come capitava, memore di ciò che attesta il Sal 118: “Lampada ai miei passi la tua parola, luce sul mio cammino”.

La scorsa estate aveva come sentito una chiamata del Signore a partecipare alla sua passione, cosa che egli ha fatto prontamente non con il terrore della fine ma con la consapevolezza di chi stava per raggiungere il suo approdo.

Mentre Marianna parlava, sono subito riandato con la mente a due brani del Vangelo: il primo, di S. Luca, quando afferma che “Gesù, indurito il volto, prese la ferma decisione di andare a Gerusalemme” (Lc 9,51), l’altro, quando S. Giovanni riporta la consapevolezza di Gesù nell’entrare nella sua passione: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1ss).

Questa è l’ultima lezione impartita dalla cattedra più difficile su cui tutti siamo chiamati a salire indipendentemente da un titolo che ci abiliti a farlo: attendere e preparare il proprio incontro con il Signore generando l’uomo nuovo così come Dio lo ha voluto. Lello era consapevole che a questo era chiamato.

Fino alla fine, pur tra le difficoltà della deglutizione, ha chiesto di confessarsi e di ricevere l’Eucaristia, pane dei deboli e conforto dei morenti. Un epilogo da patriarca, quasi, lucido sebbene provato: a trattenerlo, infatti, era solo il suo legame con Marianna alla quale, più volte, in quei giorni aveva chiesto di lasciarlo andare perché la sua ora era ormai giunta, cosa che finalmente Marianna ha fatto pregando l’Ave Maria: “adesso e nell’ora della nostra morte”. In una delle notti più faticose, suo conforto, come aveva confidato egli stesso, erano state proprio le braccia della Madonna che lo avevano tenuto stretto a sé.

Spesso, sulle nostre labbra, riaffiora quasi il compiacimento per chi si congeda da questo mondo improvvisamente. Lello, però, era figlio di quella spiritualità che faceva chiedere al Signore di essere liberati da una morte improvvisa: “a subitanea et repentina morte, libera nos Domine”, come ci facevano pregare le Litanie dei Santi.

Morire come Lello non si improvvisa: una morte così, infatti, ha un suo retroterra fatto di fede retta. Se nella sfera culturale e della preparazione accademica Lello “sapeva di sapere”, come ci ha ricordato l’Arcivescovo nell’omelia delle esequie, nell’ambito della spiritualità era figlio di san Francesco del cui Ordine Secolare è stato anche Ministro generale. Francesco d’Assisi aveva forte il senso di Dio, “Altissimo, Onnipotente e bon Signore” ma aveva altresì chiaro il senso della sua condizione: “disutile tuo servo”. Non è un caso che il cantico delle creature cominci con “Altissimo” e termini con “umilitate”.

Oggi è ancora Lello a darci appuntamento qui nella sua Cattedrale che tanto amava. Sembra quasi che sia stato egli stesso a scegliere le date del suo congedo: deceduto un venerdì di Quaresima, abbiamo preso congedo da lui di domenica, pasqua della settimana.

Oggi, il trigesimo, in un giorno significativo: è la Domenica in Albis, il giorno in cui i neofiti che avevano ricevuto il battesimo la notte di Pasqua, deponevano l’abito bianco (“in albis depositis”), festa della Divina Misericordia.

Se oggi fosse stato fisicamente con noi, Lello non avrebbe esitato a intonare con tutta la forza della sua voce, la bellissima strofa dell’Adoro te devote di san Tommaso d’Aquino, quando il dottore angelico scrive: “Plagas, sicut Thomas, non intueor: Deum tamen meum te confiteor; fac me tibi semper magis credere, in te spem habere, te diligere” (“Le piaghe, come Tommaso, non vedo, tuttavia confesso Te mio Dio. Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami”).

La fede, contrariamente a quello che pensiamo, non è una sorta di pacca sulla spalla; non è neppure un agognato punto sospeso in cui si è finalmente risparmiati dal peso delle giornate. La fede, quando è tale, prende sul serio il mio dolore, il mio buio, la mia angoscia, la mia morte.

La vita, quella vera, nasce da un dolore assunto, riconosciuto, attraversato, non da un dolore semplicemente lasciato alle spalle. La speranza non è l’alternativa al lutto ma è il frutto di una esperienza di buio; la vita nasce dalle lacrime versate, da un’angoscia non rimossa. Questo non significa idealizzare il dolore o cercarselo. Affatto. Ma se ti accade di sperimentarlo, non maledirlo, interrogalo, abitalo. Lello conosceva bene ciò che la patristica insegnava: “Quod non assumptum, non redemptum” (quello che non è assunto, fatto proprio, non ha riscatto, non giunge a maturazione, a redenzione).

La risurrezione non è un nuovo capitolo di quel libro che chiamiamo vita. Le piaghe restano, le fatiche pure. Tommaso crederà non alle parole dei suoi compagni di avventura o di sventura ma alle ferite mostrate. Riconoscerà come suo Signore quel Dio che è stato capace di assumere il suo dolore e persino la sua fatica a credere.

Gesù si rende presente là dove la paura vorrebbe imporre le sue scappatoie. La paura è vinta quando Gesù offre la sua pace, la sua misericordia e mostra i segni delle sue ferite. È risorto ma le ferite delle mani e del costato non si sono cicatrizzate, perché risorto non vuol dire restaurato.

Risorgere significa permettere al me stesso più vero di venire alla luce. E il me stesso più vero è quello che porta impresso dentro di sé il germe della vita stessa di Dio.

Il segno di una vita risorta già ora già qui non è l’imprecazione per la ferita subìta ma il prendercene cura facendola diventare canale di luce e di nuova possibilità. È questa la differenza cristiana: un discepolo del Signore lo riconosci da questo e da niente altro.

Proprio come è accaduto a Lello alla fine dei suoi giorni quando senz’altro ha ripetuto con Tommaso e come Tommaso: “Dominus Meus et meus Deus” (“Mio Signore e mio Dio!”).