Caro Antonio,
è passato poco più di un mese dalla tua improvvisa dipartita che ha colto tutti di sorpresa – com’era ovvio – a cominciare dalla tua cara mamma cui eri tanto legato, dai tuoi fratelli, cognati, nipoti, parenti tutti per finire ai tuoi amici, ai tuoi parrocchiani di ieri e di oggi, a chi ti ha apprezzato come docente o guida spirituale e anche a me che ho avuto il dono di conoscerti sin dalla prima ora della nostra avventura vocazionale.
Immagino già cosa penseresti nel leggere queste note mentre ti lasci andare a una delle tue risate memorabili, abituato com’eri a non voler mai mettere in mostra il tuo nome o il tuo operato, ma so pure che rispetteresti questo mio modo di esternarti l’affetto e la riconoscenza per quello che hai rappresentato per la vita di tanti di noi.
In questi giorni – lo confesso – sono tornato più volte sulla tua tomba a Tramutola perché, come molti altri, fatico a credere che tu non sia più fisicamente in mezzo a noi, quasi avessi bisogno della conferma che per te il tempo si è fermato veramente quella domenica mattina mentre ti affrettavi a non lasciare priva dell’Eucaristia domenicale una comunità che la attendeva.
Ho ripensato spesso alla nostra amicizia e nel farlo mi sono tornate alla mente le parole del Sal 121: «Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore’». Questo versetto, infatti, declina assai bene la nostra parabola, caro Antonio: da una parte c’era la nostra esperienza personale, al singolare, tanto diversa (“quale gioia quando mi dissero”), tuttavia, dal momento che la fede è un fatto personale ma mai soltanto privato, essa è diventata subito condivisione, al plurale (“andremo alla casa del Signore”). A legarci, infatti, per usare le parole di san Bernardo in occasione della morte del fratello Gerardo, monaco anch’egli, non era soltanto il reciproco affetto, “ci unì maggiormente la società dello spirito, il consenso degli animi, la conformità dei sentimenti”. Ad aver unito le nostre storie, “non la consanguineità, ma la concordia”, come scrive ancora san Bernardo. “Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo”, scriverà san Gregorio Nazianzeno a proposito della sua amicizia con san Basilio.
Ripenso così a quelle mattine in cui passavo a chiamarti per correre in chiesa prima di andare a scuola: “andremo alla casa del Signore”. La casa del Signore era la nostra seconda casa o, forse, quella più vera senza togliere nulla ai nostri cari che non ci hanno fatto mai mancare nulla, le nostre mamme in primis, vedove anzitempo, chiamate a rimboccarsi le maniche per rivestire di dignità encomiabile le nostre vite.
Accanto alla chiesa la canonica dove un prete vecchio stampo che non abbiamo mai visto senza la talare, ci faceva sentire attesi e accolti anche quando ne facevamo qualcuna delle nostre (io di più, tu di meno) tanto da farlo sbottare in una espressione di rimbrotto (un “ohohoh” in crescendo) che sapevamo non sarebbe mai andata oltre.
Accanto a don Vito sembrava quasi che anche noi fossimo nati con una talare addosso che scegliemmo di indossare, quando eravamo in parrocchia, sin dal primo momento anche se, talvolta, i superiori storcevano il naso facendoci incassare una relazione di fine anno con un tratto negativo circa questo aspetto.
Con noi gli indimenticabili “piccoli del Vangelo”, il carissimo Gianfranco, geloso custode della Croce processionale (che con le poche parole che riusciva a esprimere chiedeva sempre a don Vito e a noi se gli volessimo bene) e il carissimo Vincenzo, geloso custode delle campane e della chiesa.
Siamo stati accanto a un uomo povero ma tanto generoso che aveva il dono di piangere con chi piangeva e ridere con chi era nella gioia, sempre pronto a dare una mano ai suoi confratelli macinando chilometri e chilometri per funerali o feste varie. E noi con lui, andando anche in nove nella vecchia 600. Chissà che tu non abbia mutuato da lui la disponibilità a fare il jolly nel sostituire i confratelli tanto da diventare una vera ragione di vita e di morte!
È stata senz’altro la generosità con cui ci siamo sentiti accolti e riconosciuti a far germogliare il seme della vocazione che, uno dopo l’altro, si trasformò nella scelta di entrare in Seminario tanto per te, quanto per me prima e per Marcello poi.
Sei stato un prete a tutto tondo per la fede, l’assiduità nello studio, lo zelo pastorale e la serietà con cui vivevi ogni impegno. Dotato com’eri di intelligenza vivace che alimentavi con la lettura dei classici come di autori più moderni, riuscivi a trovare sempre l’occasione per affermare la ragionevolezza della fede e per confessare che “Cristo… nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (GS 22).
Scrive uno dei tuoi autori preferiti, il Card. Biffi, che “il guaio più radicale conseguente alla scristianizzazione… non è la perdita della fede, è la perdita della ragione: riprendere a ragionare senza pregiudizi è già un bel passo verso la riscoperta di Cristo e del disegno del Padre… L’alternativa alla fede, pertanto… è il suicidio della ragione e la rassegnazione all’assurdo”.
Eri molto preoccupato della piega presa da questo mondo e anche dalla Chiesa tentata, talvolta, di rincorrere il mondo. E questo ti rattristava quasi facendoti incupire (ripetevi spesso quello che Enea dice ad Acate al v. 462 del I Libro dell’Eneide: “sunt lacrimae rerum”, ossia “la vita è lacrime e l’umano soffrire commuove la mente”), proprio tu che, per il tuo tratto, eri sempre ilare e pacioso, pronto com’eri alla battuta scherzosa che non risparmiava neppure te stesso, tanto non ti prendevi sul serio (conoscevi a memoria tutte le battute dei film di Totò).
Avevi una onestà intellettuale – merce assai rara – da far invidia e questo ti permetteva di riconoscere al tuo interlocutore il giusto valore senza mai trascendere, anzi, piuttosto, facendo tu un passo indietro. Fermo nei principi eppure tanto indulgente di fronte alle storie dell’uno o dell’altro.
Scrivo queste note mentre la liturgia della II domenica di Quaresima ci chiede di accompagnare Gesù sul monte della Trasfigurazione.
Viene per tutti, come un giorno per Abramo e per gli apostoli, il momento in cui ci si chiede: Dio è per noi o contro di noi? È venuto anche per te questo momento, caro Antonio, e non una volta soltanto.
Come i discepoli sul monte vorremmo guardarci attorno per vedere se ci sarà qualcos’altro a sostenere la nostra fede. Ma il vangelo annota che non resterà che Gesù, solo, il Gesù dell’ordinarietà, non il Gesù dell’estasi sul monte ma quello che scende a valle.
Proprio questo è ciò che tu hai vissuto: hai scelto di stare con il Signore anche nel momento in cui le cose non andavano come forse avresti desiderato e sulle quali avevi giocato la tua esistenza. Non a caso amavi ripetere spesso – in latino, ovviamente – quello che san Paolo scrive in 1Cor 10,12: “Qui stat ne cadat”, vale a dire: “Chi crede di stare in piedi, badi di non cadere”.
La tentazione di Pietro, infatti, è anche la nostra. Ci è difficile uscire dalle categorie del fare, dalla logica delle prestazioni e dell’utilità.
Per te, invece, era evidente che l’opera di Dio si compie non per chissà quali nostri sforzi ma per l’attrazione che il Padre opera nei nostri confronti. Ecco perché di te colpiva il modo in cui celebravi e vivevi il tuo rapporto con il Signore. “O Gesù, celeste sposo” era un tuo abituale intercalare.
Come dimenticare quando ripetevi che noi corriamo il rischio di scrivere sull’acqua senza, perciò, lasciare traccia o quando ricordavamo l’uno all’altro la celebre frase di La Rochefoucauld: “l’ipocrisia è l’ultimo prezzo che il vizio paga alla virtù”?
Ci hai insegnato che, come un giorno per gli apostoli, non basta aver lasciato affetti e occupazioni, non basta entrare una volta nel progetto di Dio: è necessario restarvi. Ed è qui che si palesa il tuo proprium: la tua fede sincera e filiale anche a costo di non essere compreso, il tuo punto di onore custodire comunque e sempre la fede.
La disponibilità a servire era quasi innata in te. Alcuni anni fa, volendo fare dono di una formella della Via Crucis che adorna il Santuario della Madonna di Viggiano, non avesti dubbi sulla scelta: la V stazione, quella in cui Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce. Immediatamente, il riferimento era al tuo collaborare con il Santuario e con don Paolo, ma più in generale questa era la tua vocazione nella consapevolezza che la legge di Cristo si adempie quando siamo in grado di portare gli uni i pesi degli altri (cfr. Gal 6,2).
Ed è proprio per non venir meno a questa vocazione che hai perso la vita domenica 21 gennaio mentre “correvi” perché una comunità cristiana non rimanesse priva della S. Messa nel giorno del Signore dopo aver già celebrato in Ospedale e nella sua Parrocchia di Marsicovetere. Il tuo affrettarti era indice di chi non trattiene nulla per sé ma quanto ha di più caro, volentieri lo condivide. Caro Antonio, come san Pietro alla porta Bella del Tempio, hai ripetuto con la tua vita: “non ho né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo…” (At 3,6).
Davvero filiale la tua devozione a Maria che si manifestava nel renderti sempre pronto a ogni necessità del Santuario Regionale ma soprattutto nell’appuntamento quotidiano, intorno a mezzogiorno, quando, parcheggiata l’auto davanti alla Chiesa Madre di Tramutola, ti ritrovavi all’ultimo banco a rimirare “la bella Madonna dei Miracoli”.
Grazie, Antonio, per la tua amicizia e per quello che hai seminato nella vita di quanti hanno avuto il privilegio di incontrarti foss’anche solo per qualche istante.
I disegni di Dio sono imperscrutabili ma sono gli unici capaci di dare senso al nostro continuo brancolare come al buio.
Grazie perché la tua esistenza sacerdotale è la conferma evidente che la vita si guadagna donandola, si ottiene spendendola, si conquista affidandola.
Tuo Antonio