Imparate da me… non abbiate paura di mettervi alla mia scuola. La vostra fatica non è un impedimento. Siamo qui proprio per questo, per apprendere qualcosa che non fa parte del nostro patrimonio abituale. Ogni giorno torniamo alla scuola del vangelo per consegnare al Signore la nostra fatica a vivere fino in fondo la nostra vocazione. Veniamo a questa scuola non per apprendere un insegnamento ma per fare nostro un modo di essere, un modo di vivere.
Alla scuola di Gesù, infatti, si apprende che cosa procura lo sguardo della fede: la capacità di andare oltre le apparenze per riconoscere anche nelle situazioni di fragilità e di limite, un Dio all’opera a prescindere dalle condizioni oggettive che possono venire a crearsi.
Alla sua scuola si impara a cogliere la bellezza della vita anche là dove essa sembra registrare soltanto deformazioni.
Alla scuola di Gesù si apprende che Dio si apre varchi in chi vive situazioni di marginalità e non cede alla tentazione di presumere di sé.
Alla scuola di Gesù scopriamo le sorprese di un Dio che non si sottomette alle regole ferree del potere o del sapere.
Dio si è fatto debole forse anche per questo: perché nel cuore di ogni debolezza, là dove un giorno saresti arrivato, tu trovassi il suo nome e il suo mistero. E dunque non scandalizzarti della tua debolezza. E non scandalizzarti della debolezza altrui.
Vuoi conoscere qualcosa del mistero di Dio? Comincia a stare con i poveri. Non ridurre Dio e le cose di Dio a discussioni da circoli: non ne vieni fuori. È roba per chi può concedersi il lusso del potere. Vuoi conoscere qualcosa del mistero di Dio? Comincia a restituire dignità e onore a quegli aspetti di te con cui più fai fatica a stare a contatto. È solo la consapevolezza della propria povertà che porta l’uomo ad accogliere con disponibilità il dono di Dio. Questo è il paradosso della nostra fede: che la salvezza possa venire proprio nel luogo della sconfitta. Cosa attesta, infatti, il mistero pasquale se non che la ferita è chiamata a diventare feritoia?
Alla scuola di Gesù impariamo che essere umili, avere il giusto sentire di sé, è condizione indispensabile per l’opera del Signore. Umiltà: riconoscere che da soli non si sta in piedi. Umiltà, cioè senza arroganza. Fai una promessa e sperimenti di non mantenerla. La rifai e sbatti il naso molteplici volte almeno fino a quando prendi coscienza di essere davvero poca cosa. È sempre così: solo la consapevolezza della tua inadeguatezza è la condizione ideale per compiere l’opera di Dio. Questo è vero per il singolo discepolo ma lo è altrettanto per la comunità cristiana.
È proprio quando tocchi con mano la forza e il peso del tuo limite che il Signore si apre un varco: “la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella tua debolezza”. A Paolo che volentieri pretenderebbe che quella spina gli sia tolta perché questo sarebbe condizione per la plausibilità del suo ministero, il Signore risponde che l’esperienza e l’impedimento della sua piccolezza, non sono affatto un ostacolo al ministero. Anzi: rappresentano la condizione di una migliore fecondità. Perciò Paolo potrà concludere suo malgrado: La mia fiducia la pongo tutta nella mia piccolezza.

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Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse:
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».