Provare a considerare le cose da un altro punto di vista. Mi pare di poter sintetizzare così la ricca parola che ci viene consegnata. E mi pare che la prima cosa da fare sia proprio quella di fermarsi a riflettere, esercizio affatto scontato. Se accettiamo di fermarci forse riprendiamo consapevolezza che sulla terra non siamo padroni neppure del nostro respiro. Siamo soltanto ospiti a tempo. Una verità ovvia se non addirittura banale. Ma rimossa questa verità finiamo per fare esperienza di quella insensatezza individuale e collettiva che è sotto i nostri occhi.
Questione d’intelligenza, sembra ripeterci Gesù. Provare a leggere dentro (intus-legere) e così comprendere che il rischio di sentirsi autosufficienti, di non aver più bisogno di nessuno è dietro l’angolo. Rischio tipico di chi finisce di arricchire per sè, dimenticando che i beni sono e restano soltanto un mezzo. Se diventano un fine è come aver smarrito la meta del viaggio favorendo quell’atteggiamento che fa coincidere la tappa con la meta, ciò che passa con ciò che ha consistenza imperitura. Il per sé è l’atteggiamento tipico di chi vive secondo uno sguardo autoreferenziale e narcisistico che, invece che incontrare il volto dell’altro, si rispecchia soltanto nel proprio. Questa – dice Gesù – è già una vita morta prima della morte perché l’hai svuotata dall’interno del senso vero dell’esistere.
Quel tale era andato da Gesù con una domanda che probabilmente lo assillava non poco. Richiesta più che motivata la sua. Ma secondo Gesù egli stava evitando di affrontare un problema ben più serio che quella situazione celava: una questione di denaro – l’eredità – era diventata più importante dello stesso legame di sangue con suo fratello. Il maestro avrebbe dovuto dirimere la questione economica non certo il modo in cui ricucire il rapporto con suo fratello. Non basta – ripete Gesù – perseguire soltanto il proprio bisogno di giustizia perché la nostra vita possa avere un fondamento stabile: summum ius summa iniuria. C’è qualcos’altro.
Ecco dunque l’invito a guardare le cose da un altro punto di vista. Questione di discernimento, appunto.
L’esperienza della morte è un momento di verità che vorrebbe aprirci gli occhi e così valutare i beni per quello che sono: solo un sostegno nel cammino verso il Regno. La morte è lì a ricordarci che non tutto si esaurisce in ciò che siamo riusciti ad accumulare: c’è altro, ben altro che ci attende. Essa attesta che la vita non sta in quanto possediamo ma in quanto possediamo del Signore e in quanto ci lasciamo possedere da lui. È questo l’arricchire per Dio: imparare a non tenere in pugno la propria esistenza come se essa dipendesse esclusivamente da noi e dalle nostre strategie economiche. Questa è soltanto una illusione inconsistente che prima o poi non tarda a manifestarsi nella sua verità. La vita non è fatta di ciò su cui posso finalmente mettere le mani ma di ciò che, ricevuto con gratitudine, sono capace di condividere.
L’errore dell’uomo della parabola sta nell’attribuire ai beni il potere di renderlo immortale. Ecco perché prima ancora che un problema morale si tratta di un problema di intelligenza: quante energie profondi per guadagnarti una sicurezza che derivi dall’opera delle tue mani e quante per provare ad arricchire davanti a Dio?
L’uomo ricco ha finito per vivere il suo rapporto con il quotidiano non tanto come un ambito in cui realizzarsi quanto come una trappola che lo imprigiona. Alla ricerca com’era della propria autosufficienza, ha finito per perdere di vista quella dimensione di fragilità che accompagna costitutivamente l’esistenza di ognuno di noi. L’alternativa, infatti, è proprio tra queste due dimensioni: autosufficienza e fragilità. L’illusione dell’autosufficienza è soltanto l’anticamera della delusione: nell’istante in cui ti chiudi nel tuo piccolo grande mondo che cos’altro accade se non l’isolamento e perciò l’impoverimento? Il paradosso è che questo è il frutto di tutti quei meccanismi che tu hai attivato per arricchirti.
Chi vive consapevole della propria dimensione di caducità non è vittima dell’illusione di poter finalmente superare l’esperienza della morte e del proprio limite. Sa che fa parte dell’esistenza anche questo aspetto e perciò vede gli altri non come rivali – di’ a mio fratello che divida con me l’eredità – ma come persone con cui condividere. I beni vanno trasformati in relazioni, in amicizie perché saranno relazioni ed amicizie a permetterti di entrare nelle dimore eterne: dalla logica del possesso a quella della gratuità. L’alternativa, perciò, non si pone tra essere o avere. Vera ricchezza, infatti, è quella di chi fa crescere l’essere della persona “attraverso l’incremento condiviso” dell’avere.
L’alternativa è tra il per sé e il davanti a Dio. Non dimenticando che il davanti a Dio si declina sempre e soltanto mediante il mai senza l’altro.

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Dal Vangelo secondo Luca 12,13-21
 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».