La solennità di S. Chiara cade ogni anno in quella che, forse, è la settimana dell’anno liturgico in cui più di ogni altra si celebrano grandi figure di santità insieme al mirabile evento della Trasfigurazione: Domenico, Teresa Benedetta, Lorenzo, Chiara.

Proprio la festa di san Domenico mette in risalto il proprium della vita cristiana e, ancor più, di una vocazione come la vostra, carissime sorelle.

Sulla montagna da cui aveva appena proclamato le congratulazioni di Dio per poveri, afflitti, operatori di pace, misericordiosi, perseguitati, Gesù stabilisce che la fede non può mai essere declinata secondo il versante privato di un arricchimento personale o di una consolazione nei momenti di prova.

Non a caso, infatti, per parlare dei suoi Gesù usa delle immagini che stabiliscono come essi non sono mai anzitutto per se stessi ma per il mondo: sale della terra, luce del mondo, città posta sopra un monte. Una pro-esistenza, per usare le parole di Bonhoeffer, così Gesù ha pensato la vita dei suoi discepoli.

Quando pensava ai suoi, Gesù li pensava come persone non preoccupate di se stesse, proprio come il sale e come la luce.

Sale e luce sono due elementi antinarcisistici: tanto l’uno quanto l’altra esprimono la loro identità più vera nella misura in cui esaltano qualcosa o rischiarano qualcuno. Il sale non può salare se stesso e la luce non può illuminare se stessa. Essi sono solo uno strumento mai il fine delle loro azioni. Esercitano la loro funzione dissolvendosi e consumandosi: un vero e proprio apparecchio alla morte. Diventare capaci di scomparire.

Il sale non si impone ma si espande, la luce non calca ma evidenzia con discrezione.

Una pietanza senza sale, per quanto sufficientemente elaborata, manca di ciò che aiuterebbe a gustarla e non già a ingerirla soltanto come quando si è costretti a mangiarla sciapa. Un museo non adeguatamente illuminato, per quanto possa custodire anche i tesori più preziosi, non potrà mai essere apprezzato nel suo valore.

Ecco la pro-esistenza: senza sfoggi né scontri, senza sceneggiate né battaglie per autoaffermarsi. Il mondo e la terra sono luoghi da trasformare restituendo loro il senso di cui necessitano, non già realtà da combattere.

La presenza di Cristo nella mia vita muta lo sguardo, cambia il pensiero, modella il linguaggio, rende vero l’amore, mi aiuta ad attraversare il dolore, diventa compagno nella morte. Perché mai? Perché la sua non è l’esistenza di chi non è sopravvissuto al suo funerale come tanti grandi della storia di cui pure riconosciamo l’importanza e ne celebriamo il ricordo: Gesù Cristo ha vinto la morte e per questo non mi abbandona nella nebbia del non-senso.

Non può restare nascosta una città…

Il venire alla luce di ciascuno di noi comporta essere esposti. Perciò, ciò che penso, ciò che dico, ciò che compio non è mai neutrale: o è luce o è ombra.

 

Cos’ha da dire a noi uomini della post-modernità san Domenico, un uomo che per anagrafe appartiene a quelli che siamo soliti definire “secoli bui”?

Ha da dire tanto. Non è un caso che quando si vorrà descrivere il suo stile, si dirà che “o parlava di Dio o parlava con Dio”. Sembra quasi che il suo io si perdesse nel dialogo ininterrotto con il Signore o nell’annuncio del Vangelo.

San Domenico non ha conosciuto quella che è la fatica tipica di noi postmoderni: per lui fede e vita non correvano su binari paralleli. Per questo, mentre lo troviamo intento alla più sublime contemplazione o allo studio delle Scritture eccolo pure prendersi cura dei poveri per i quali era persino disposto a vendere i suoi libri oltre che i suoi beni.

L’ideale di san Domenico sarà ben espresso da quel motto coniato da san Tommaso che recita così: “contemplata aliis tradere”. L’annunciatore del vangelo non porta se stesso: egli dona agli altri solo quanto ha potuto ricevere nell’ascolto e nella comunione con Dio.

Prima di essere maestri si è contemplativi; prima di generare i fratelli alla verità del vangelo, è necessario non smettere di lasciarsi generare da esso.

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Passeggiava S. Domenico su e giù per il chiostro del suo convento, pregando.

La sera era serena e i frati tutti nelle loro celle in religioso silenzio quando il santo incontrò nascosto sotto il saio bianco e nero, il diavolo. Gli chiese: “Cosa fai a quest’ora nel mio convento?”.

Rispose il diavolo: “Quello che faccio tutto il giorno: i miei guadagni!”

Passando davanti al refettorio, S. Domenico chiese al demonio: “Qui che guadagni fai?”. Rispose il nemico di Dio: “Colgo i frutti dell’intemperanza e della gola dei frati”.

Passando davanti alle celle: “E qui che guadagni fai?” “Molto ozio e pigrizia!” rispose contento il tentatore.

Davanti alla Chiesa, il demonio affermò di raccogliere molte distrazioni e tiepidezze; davanti alla biblioteca molta curiosità e vanità, nel cortile, molte mormorazioni.

Giunsero così parlandosi sinceramente, davanti alla sala del capitolo, dove i frati si pentono e confessano le loro colpe. “E qui, che guadagni fai?” chiese Fra Domenico, incuriosito.

Il demonio allora scrollò la testa con disappunto e rabbiosamente confessò: “Qui, purtroppo, perdo tutti i miei guadagni!

I tuoi stupidi frati qui si confessano e si pentono delle loro mancanze. Dio li perdona e io rimango a mani vuote!”

Detto questo, vergognoso, sparì.