Tutto finito… una morte inutile, per niente, addirittura banale… Cos’era cambiato? A cosa era servito lo stare con quel maestro di Galilea venuto dal nulla (da Nazaret!)? Quanti investimenti! E ora che lui non c’era più? Nulla. Solo le sue promesse vane, l’amarezza dell’imbroglio e il dubbio del fallimento. Quanta rabbia! Non rimaneva che lasciare Gerusalemme, dimenticare, voltare pagina. Degli altri non gli importava più nulla, tanta era la delusione. Abbandonato dal maestro, arrabbiato con se stesso, non restava altro che ognuno decidesse per sé, proprio come quando s’infrange un sogno che pure aveva accomunato tanti e per lungo tempo (cronaca anche di questi giorni). I più avevano deciso di mettersi ancora al sicuro nella casa della cena pasquale con Gesù, ma erano paralizzati dalla paura di quanto accaduto e perciò prigionieri immobili di un passato che ancora decideva per loro. La paura ha sempre la meglio quando il cuore non ospita più certezze e le mani non accarezzano più alcun sogno. Si erano chiusi dall’interno proprio in quella casa che doveva restare il segno permanente dell’apertura e dell’accoglienza verso ogni uomo.
Così dovevano essere i pensieri di Tommaso: quale combattimento dentro di sé, quale tormento! Così sono i pensieri di ogni uomo sulla terra, prima o poi. Tommaso ripensava al suo desiderio di morire per Gesù, con Gesù, ma di certo non in quel modo così stupido, senza una ragione.
Quella sera, quando ancora in preda al travaglio interiore si era deciso a bussare alle porte di quella casa, si era sentito investire dalle dichiarazioni gioiose di tutti circa il fatto che Gesù fosse vivo: non era finito tutto! Tutti, però, si rammaricavano del fatto che Tommaso non fosse stato presente quando Gesù era apparso. Me lo immagino mentre tutti lo rimproveravano perché se ne fosse andato, proprio lui. E Tommaso deve aver percepito quel gruppo tanto distante da sé: era come se quelle porte, in realtà, fossero chiuse in faccia a lui. E lui da assente si fosse trasformato in escluso. E questo non faceva altro che acuire la sua inquietudine e la sua fatica.
A Tommaso non bastava sentir parlare di Gesù: aveva bisogno di vederlo anche lui. Non bastava che fossero gli altri a raccontarglielo: voleva essere lui a riconoscerlo. Non cercava una comunità che gli parlasse del Maestro: aveva bisogno di una comunità che glielo facesse incontrare. Quella di Tommaso non era una sfida: chiedeva solo che Gesù fosse fedele alla parola data, visto che aveva promesso che sarebbe risorto.
Tommaso era consapevole che “non si può credere in nome degli altri. La fede chiede sempre lo stupore della scoperta e la dedizione dell’affetto”. La sua fede cercava solo un solido fondamento. Pativa, Tommaso, di essere identificato come “l’uomo dei dubbi”. Tommaso, in realtà, era “l’uomo dei desideri”: voleva vedere Gesù. E, infatti, quel vivo desiderio fu esaudito, tanto che Gesù si rese presente nonostante le porte chiuse. Per lui, infatti, le porte non erano chiuse per nessuno. Il problema era piuttosto dei discepoli che ancora faticavano a spalancarle. Mai porte chiuse per i poveri, per i dubitanti, per i peccatori. E Tommaso era senz’altro tra questi.
Quella sera Tommaso scoprì che “se noi manchiamo di fede, Dio però rimane fede perché non può rinnegare se stesso”.
Mentre con lo sguardo accarezzava le mani del maestro, s’accorse che quelle mani sempre aperte nel gesto del dono, avevano saputo ospitare anche la storia dell’umiliazione e della sofferenza. Qualcuno avrebbe voluto che esse restassero per sempre legate ad un legno e, invece, per mezzo di esse – segnate per sempre dall’incomprensione, dal sospetto, dalla rivalità – chiunque sarebbe stato accolto tra le braccia della misericordia di Dio,
Mentre con le lacrime agli occhi stringeva i piedi del maestro, s’accorse che le ferite che essi riportavano, da una parte erano memoria della meschinità dell’uomo e, dall’altra, narravano che sulla “via del dolore l’uomo non sarà mai solo”. Attraverso il segno di quelle ferite Tommaso scopriva che i sentieri della sofferenza non sono solo percorsi di disperazione.
Mentre fissava il suo sguardo sul cuore trafitto, Tommaso scopriva che Dio disegna sempre i confini del suo rapporto con l’uomo su un cuore spezzato. Fino a quel prezzo Dio era disposto a rimanere legato all’umanità.
Fu tale lo stupore per la scoperta, che Tommaso non poté non sentirsi sempre più legato a quel Dio tanto sorprendente. Tuttavia, lo stupore più grande per Tommaso, fu quando sentì ripetere dalle labbra di Gesù le stesse parole che egli, solo pochi giorni prima, aveva ripetuto ai suoi amici. Esse erano state voce di un discepolo che desiderava capire. Ora Dio le faceva sue. Questo scoprì Tommaso: che Dio fa sue persino le mie parole, quelle che talvolta potrebbero sembrare irriverenti (se… se… se…). A nulla sarebbe valso che la risurrezione avesse dischiuso un sepolcro di pietra, se Tommaso non avesse acconsentito a dischiudere quello che custodiva le sue resistenze.
A Tommaso non fu necessario toccare: gli bastò scoprire che Gesù avesse preso in prestito le sue stesse parole, scoprire che egli davvero lo conosceva fino in fondo. Scoprire che a Dio fossero note le sue riserve, era ciò che aveva dischiuso la fede di Tommaso. L’ora della fede coincise con l’ascolto di quelle sue parole.
Quella sera Tommaso scoprì che Dio non è un ricordo lontano: quell’uomo che aveva davanti a sé, con quelle ferite, era Dio stesso: mio Signore e mio Dio! Colui che aveva davanti a sé narrava che Dio si era abbassato a tal punto “per una umanità dal cuore chiuso, dalla mente appannata, dalla volontà fragile”. Quello che aveva davanti a sé era il “suo” Dio e il Signore dei suoi progetti, del suo futuro e del suo amore.
Mio Signore e mio Dio…