Strana quell’alleanza fra farisei ed erodiani. Un gioco politico val bene quell’accordo di circostanza. Sembra una pagina di cronaca odierna. Essi che nulla avevano in comune (tantomeno l’argomento che sottopongono al maestro, dal momento che i primi dissentivano, gli altri erano favorevoli) erano andati da Gesù convinti di riuscire a incastrarlo una volta per tutte. Qualunque fosse stata la risposta si sarebbe condannato con le sue stesse mani. E, invece, Gesù affronta la questione da un’altra prospettiva che spiazza i suoi interlocutori: anzitutto riconoscere che ciò che li guida sono soltanto opportunità e interessi, compromessi e aggiustamenti.
Quanti princìpi decantati sotto la maschera della ricerca di vantaggi di parte! Quanti fastidi a misurarsi con le cose di ogni giorno in nome di un primato della vita spirituale! Anzitutto imparare a prendere atto delle nostre vere motivazioni e dello sdoppiamento che esiste tra ciò che diciamo e ciò che portiamo nel cuore. Per questo, ripete Gesù, è necessario imparare a leggere le cose dal punto di vista di Dio.
A Cesare ciò che è di Cesare…
Un rapporto limpido con il potere senza permettere che alcuni abusi della sua autorità e una fedeltà assidua e responsabile verso i propri compiti: ecco che cosa chiede Gesù ai discepoli di ogni tempo. Rapporto limpido con il potere significa riconoscere ciò che si riceve dalle varie istituzioni e perciò assumersi il compito di contribuire al bene di tutti, senza scappatoie, senza sotterfugi. Svolgere con competenza e dedizione ciò che la vita ci affida.
Ma che cosa fa sì che sia possibile vivere un rapporto limpido con il potere? Il rendere a Dio quello che è di Dio. E come si declina tutto questo per noi? Esprimendo la gioia di una appartenenza a Dio, in un sereno rapporto con le cose e le realtà umane.
Come sto ad esempio di fronte al creato? Con quale atteggiamento? Nella misura in cui lo riconosco come una realtà che viene da Dio, lo ammiro, lo apprezzo, lo rispetto. Se di esso, invece, io mi sento padrone, finisco per possederlo e per deturparlo.
Come sto di fronte ad un altro essere umano? Con quale atteggiamento? Se non dimentico che quell’uomo e quella donna portano impressa l’immagine del Padre mi faccio custode della loro vita e della loro dignità; se invece non sono capace di una simile lettura, pretenderò di possedere l’altro, di strumentalizzarlo, di umiliarlo, di trattarlo con indifferenza.
Se sono in grado di dare a Dio ciò che è di Dio, sarò in grado di riconoscere ciò che devo a Cesare senza diventare vittima del suo potere.
Dare a Dio ciò che è di Dio significa poi imparare a vivere con gratitudine, nella consapevolezza che ciò sono e ciò che ho è dono di Dio. La consapevolezza della gratuità che pervade e accompagna la nostra esistenza è ciò che ci rende umili. Che cosa ho di mio che io non l’abbia ricevuto? A partire da questa esistenza, dai giorni che ricevo in dono, dalle risorse e dalle capacità di cui posso usufruire: tutto viene da Dio e tutto è talento prezioso destinato ad essere ricchezza per tanti.
Chi è capace di gratitudine è altrettanto capace di fiducia. L’attitudine a scorgere nel nostro quotidiano i modi attraverso cui Dio ci raggiunge con i suoi doni e con la sua grazia (un incontro, una parola, un gesto, uno sguardo, un problema che si avvia alla soluzione), ci aiuta a mettere in luce il bene e ci fa credere che anche se in maniera imprevedibile, Dio continuerà ad aiutarci.
Dare a Dio ciò che è di Dio ci fa riscoprire l’importanza e la bellezza della preghiera che non è né un obbligo né una parentesi nelle nostre giornate. Essa è piuttosto il respiro dell’esistenza personale. Essa è come il rapporto con le persone care: ce le portiamo dentro, siamo con loro di continuo, anche quando siamo lontani o presi da altri impegni. Il momento dell’incontro con il Signore non è mai un dovere da adempiere, ma ha a che fare con la gioia del ritrovarsi.
Dare a Dio ciò che è di Dio si traduce poi con la capacità di adorare. A quante cose siamo sottomessi a volte senza neanche più accorgerci. Imparare a riconoscere l’unico Signore dinanzi al quale prostrarsi per ritrovare il senso della vera libertà senza permettere che nulla prenda il suo posto.
Dare a Dio ciò che è di Dio significa incarnare una fede operosa che non si ferma al dato emotivo ma diventa impegno di vita; significa, inoltre, diventare segno di quell’amore che non rifugge dai banchi di prova della vita; significa, ancora, essere segno di una speranza perseverante come capacità di guardare al futuro con gli stessi occhi di Dio.
Quando due persone si attestano reciprocamente: sono tuo, ti appartengo, non sentono l’altro come motivo di espropriazione ma gioiscono di un legame intimo che è costitutivo di tutto il loro essere. Così è del nostro rapporto con Dio: io sono sua proprietà (Is 44,5). Gli appartengo.
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Dal Vangelo secondo Marco
Mc 12,13-17
In quel tempo, mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso.
Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perchè non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?».
Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». Ed essi glielo portarono.
Allora disse loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio».
E rimasero ammirati di lui.