A lezione da una donna Più volte il vangelo narra di Gesù a lezione dalle donne. Una di queste circostanze in cui ritroviamo Gesù alla scuola di una donna è proprio nella casa di Betania là dove apprende che cos’è lo spreco dell’amore. Ai discepoli aveva detto espressamente: Tra due giorni è Pasqua e il …

A lezione da una donna

Più volte il vangelo narra di Gesù a lezione dalle donne. Una di queste circostanze in cui ritroviamo Gesù alla scuola di una donna è proprio nella casa di Betania là dove apprende che cos’è lo spreco dell’amore.

Ai discepoli aveva detto espressamente: Tra due giorni è Pasqua e il Figlio dell’uomo viene consegnato per essere crocifisso (Mt 26,2). Ma da parte loro nessuna reazione, anzi, avevano rimosso la notizia. Proprio mentre si complotta contro di lui, Gesù si ritira a Betania, in quella che Paolo VI chiamerà la casa dell’amicizia dove una donna sorprende tutti con un gesto gratuito, dal sapore profetico.

Proviamo a tenere davanti a noi la scena: al centro c’è Gesù, ai suoi piedi una donna compie un gesto di straordinaria tenerezza verso il corpo di Gesù. Sullo sfondo le critiche, interessate, di Giuda. Infine la parola di Gesù che elogia il gesto della donna.

Maria non proferisce parola con nessuno, neanche con Gesù. È ciò che compie, invece, la sua parola più eloquente che Gesù non mancherà di mettere in risalto.

Il gesto di Maria va riletto alla luce di quell’altra scena che accade sempre nella casa di Betania, dove di nuovo Gesù è al centro e Maria ai suoi piedi mentre ne ascolta le parole. Anche in questo caso non mancano le critiche al comportamento di Maria da parte della sorella Marta (Lc 10,38-42). Le due scene presentano non poche analogie: Gesù è al centro; Maria è convinta che per lui si può “perdere” molto tempo, per lui si può “sprecare” tanto costoso profumo. In entrambe le scene il comportamento di Maria, totalmente assorbita dalla persona di Gesù, non è capito, anzi è pesantemente criticato. Marta vorrebbe che la sorella la aiuti nelle faccende di casa invece di stare ai piedi di Gesù in ascolto; Giuda vorrebbe che il costoso profumo venga venduto per dare il ricavato ai poveri. La scelta di una esistenza dominata dalla centralità di Gesù, segnata dalla dedizione esclusiva per lui, per la sua parola, per la sua persona, non è compresa. Sembra scelta irresponsabile perché carica sulle spalle degli altri i compiti della vita quotidiana, sembra una scelta irresponsabile perché spreca risorse che potrebbero esser meglio utilizzate. Non tutti capiscono e apprezzano la scelta di uomini e donne che dedicano tutt’intera la loro esistenza all’Evangelo.

Per Maria non c’è niente di più importante della persona di Gesù.

Non così per Giuda: perché non si è venduto…? Di che cosa accusa Maria, anche se in forma implicita? Di aver sperperato i soldi. A lui non interessano i poveri ma l’avidità del denaro. Giuda protesta perché quel profumo vale trecento denari. Quale contrasto! Lui venderà il Maestro per molto meno: trenta denari appena.

Maria e Giuda sono due figure opposte:

  • Maria, l’amica fedele, unge di profumo Gesù; Giuda, l’amico traditore, ne provoca la morte.
  • Maria, con la sua azione compie qualcosa di gratuito; Giuda, con le sue critiche, manifesta il suo essere schiavo del denaro.
  • Il gesto di Maria fa sì che la casa si riempia di profumo; la domanda di Giuda manifesta il clima asfittico creato da chi ha torbide intenzioni di frode.

A Betania Gesù si misura con una donna che, come la vedova di Mc 12,38-44, non trattiene nulla per sé. Quella donna, infatti, avrebbe potuto limitarsi a versare la misura sufficiente (quanto bastava) per onorare quell’ospite ragguardevole risparmiandosi così le critiche dei commensali. Lo sappiamo: nulla di nuovo accade nella vita quando ci si ferma alla logica del quanto basta.

Il buon senso giudica un simile gesto come irrazionale proprio come irrazionale l’obolo da parte di quella vedova che peraltro era esente dal dover versare la tassa al tempio. A tutti noi è stato insegnato che una cosa preziosa va usata con parsimonia: sarà proprio questo, infatti, che susciterà il commento di disapprovazione da parte dei commensali. Eppure, possiamo dire che è proprio a Betania che Gesù ha imparato ciò che poi farà nell’ultima cena con i suoi discepoli. Quel gesto gli rimarrà impresso nella memoria del cuore tanto gli era piaciuto. Di lì a poco, infatti, farà la stessa cosa con i suoi discepoli: Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1). E lo farà con una lavanda d’amore, lui il Maestro, il Signore, ai piedi dei suoi discepoli. Persino ai piedi del suo traditore.

 

Giuda, una sequela parallela

Nel cuore della cena l’annuncio del tradimento. Ci sorprende da una parte e ci consola dall’altra il fatto di sapere che Gesù quella sera si consegnava ad un gruppo di discepoli con le loro riconosciute debolezze e con i loro confessati tradimenti. Si consegnava pur sapendo che quelle mani non erano certo affidabili. Chi di noi lo avrebbe fatto? Noi non ci consegneremmo. Se non abbiamo la garanzia della affidabilità piuttosto non ci esponiamo. Sta qui la vera esposizione dell’Eucaristia. Noi ne abbiamo inventato un’altra tra ceri e fiori sull’altare, ma la vera esposizione è l’esporsi, il suo porsi fuori consegnandosi. Lui, il Signore, ridotto a una cosa. C’è da domandarsi se anche noi non perpetuiamo questa manipolazione del sacramento là dove viviamo dei riti ma non degli incontri.

Come si risponde a un Dio che si espone? Non certo con la diffidenza, non con la paura di rischiare o con la cautela.

“Colui che ha  intinto con me la mano nel piatto”: intingere il boccone è, nella Bibbia, un segno di alleanza, di ospitalità. È un gesto che dice la volontà di comunione che anima il maestro persino di fronte a chi lo tradirà.

Il tradimento di Giuda è un tradimento annunciato. È partito da molto lontano: un gesto così non s’improvvisa. Per Giuda Gesù non è il Messia che egli si aspettava. Già in Gv 6,70 l’evangelista mette sulle labbra di Gesù queste parole: Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo! Cos’è che aveva fatto sì che Giuda divenisse un divisore? Il fatto che Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo (Gv 6,15).

Giuda non concorda con Gesù nel modo di vedere le cose e soprattutto nell’intervento da intraprendere. Il suo modo di intendere il Cristo era tanto distante da quel povero Cristo incamminato verso una croce.

Giuda, in questa vigilia del Triduo Santo, è per noi sprone a verificare le nostre aspettative nel permanere alla sequela del Signore Gesù. Quante volte non concordiamo con il suo Vangelo! Quante volte vediamo scombussolati i nostri piani! Talvolta percepiamo il Signore quasi come un fastidio, un intralcio dal momento che non è catalogabile nei nostri schemi e progetti. Giuda voleva che il Cristo fosse “suo”. In fondo si perpetua continuamente lasciare il vero Dio a discorrere sul monte con Mosè e così costruircene uno a valle a nostra misura. E non poche volte troviamo anche qualche Aronne disposto ad aiutarci in una simile impresa.

Quest’oggi ci chiediamo: io chi seguo?

Non è che Giuda abbia preferito un’altra strada: aveva scelto un altro modo di stare su quella medesima strada. La sua è una sorta di sequela parallela: non segue più il Signore, gli cammina accanto ma perseguendo suoi pensieri e miraggi. È un cammino fatto insieme quanto a passi ma tanto distante nella mente e nel cuore. Giuda continua ad appartenere al gruppo ma dentro di lui non è più dei Dodici. Si professa come uno di loro senza appartenere più a loro.

Accanto a Gesù con i passi ma non condivide i suoi gesti e i gesti d’amore nei confronti del Maestro. Giuda non ha il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere chi è in realtà. Non è forse questa la nostra, la mia condizione? Continuiamo a dirci credenti, discepoli ma più abbiamo del credente e del discepolo. Forse anche noi siamo discepoli (impariamo tante cose dal Maestro) ma non più seguaci (non pensiamo e non viviamo alla maniera del Maestro).

È vero: ci vuole coraggio per scegliere il Signore ma ce ne vuole almeno altrettanto per discostarci da lui. E così ci barcameniamo. E come Giuda finiamo per servirci persino dei gesti di amicizia senza caricarli più del loro significato. Giuda pone gesti di amicizia (mangia il boccone offerto dal Signore) ma si pone fuori da quell’amicizia.

Quale significato io do ai gesti di comunione che pongo in atto?

 

Veronica, chi non ha paura della tenerezza

Era davvero soltanto uno dei poveri cristi che sono sulla terra quell’uomo che spira dopo aver emesso un forte grido? Ho provato a chiederlo ad alcuni dei personaggi che fanno la loro comparsa mentre si consuma per Gesù una fine ignominiosa, quella inferta a un malfattore.

La tradizione ha da sempre custodito la memoria di una donna che, in mezzo a tanta barbarie dispiegata addosso e attorno a Gesù, riesce ad attestare la tenerezza di chi sa che cosa è in gioco in quel frangente. A differenza di Simone di Cirene che era stato costretto a prendere per un tratto la croce al posto di Gesù, quello di Veronica è il gesto spontaneo di chi si fa strada tra la folla e i soldati.

Il suo non è il gesto che imprimerà un nuovo corso agli eventi. Di fatto Gesù morirà. In fondo, che valore ha asciugare un volto? Quel gesto, però, era tutto quello che lei poteva fare e l’ha fatto con risolutezza. Il suo era figura dei gesti di tanti uomini e donne, che sull’esempio del Maestro, nulla hanno trattenuto per loro e si sono ritrovati sulla cattedra del Vangelo come figure che hanno compreso e incarnato lo stile del Figlio di Dio: il ragazzo dei cinque pani e due pesci, la vedova che aveva gettato nel tesoro del tempio pochi spiccioli, cioè quanto aveva per vivere, l’uomo che aveva accettato di slegare il suo asino, quell’altro che aveva messo a disposizione la sala al piano superiore per la cena. La Veronica disponeva di un fazzoletto, l’umile gesto della carezza: non ebbe paura della tenerezza e colui che aveva promesso che neppure un bicchiere d’acqua sarebbe rimasto senza ricompensa, le ha fatto il dono di far rimanere impresso il suo volto proprio su quel fazzoletto.
Ogni gesto di attenzione e di tenerezza verso qualcuno, tesse in chi lo compie la somiglianza con lo stesso Gesù. Un gesto di tenerezza non passa. Anzi, ogni gesto di bontà e di comprensione, di servizio e di cura lascia nel cuore dell’uomo un segno indelebile, che lo rende sempre più simile a colui che “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo”. “Il Salvatore… imprime la sua somiglianza su ogni atto di carità, come sul lino della Veronica” (Giovanni Paolo II).

Veronica rappresenta l’invito a restare umani proprio quando maggiore è l’ottenebramento dei cuori e più seducente l’attrattiva a cedere alla ferocia e alla violenza.
Ci sono dei momenti in cui senti che devi muoverti ma, talvolta, la paura di restare compromesso ha la meglio. Quando questo accade ci priviamo del dono di vedere impresso su di noi il volto del Signore dipinto proprio grazie al sudore e al sangue del Signore stesso. A vincere la paura non è il coraggio come siamo soliti pensare. La paura la vince solo chi ama. Non è un caso che attorno a Gesù resti il femminile, l’unico in grado di superare il filtro della paura: Veronica e le altre dopo di lei non temono gli insulti, accettano di essere strattonate, lasciano che su di loro vengano urlati improperi e maledizioni. Ma nulla le arresta. Già. Il Cantico dei Cantici lo aveva preannunciato: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo”. Cosa che desta stupore è il fatto che “gli operai del male”, di fronte a quel gesto di tenerezza, non osano impedirlo perché si sentono incapaci di agire. Mi piace pensare che quando anche noi diventiamo “operai del male”, forse è perché non abbiamo ricevuto gesti di tenerezza. Ci sono gesti piccoli eppure tanto luminosi da rischiarare le nostre vie che conducono alla morte.

Pietro e gli altri preferirono rifugiarsi “nel loro proprio” onde evitare di trovarsi coinvolti in una vicenda che di certo li avrebbe segnati in qualche modo. Solo chi ama non ha un “proprio” in cui ritirarsi. È dell’amore essere espropriato. Il suo proprio, infatti, è l’amato. L’amore vero si manifesta proprio nella compassione, nella capacità di entrare nella stessa sofferenza dell’altro fino a farla propria. Quello della Veronica non è il gesto della solidarietà ma dell’appartenenza: quell’uomo e quella sofferenza le appartengono.

Cosa sarebbe il mondo senza il gesto di una Veronica? Cosa sarebbe la nostra vita senza il gratuito che non calcola e perciò è fuori della logica dell’utile e del profitto. Ne abbiamo fatto esperienza tante volte quando qualcuno ci ha sorriso o magari ci ha salutato o forse ci ha incoraggiato o, più semplicemente, ci ha accarezzato.

La Veronica ha avuto la grazia di vedere impresso il volto stesso del Figlio di Dio sul suo panno. Anche noi abbiamo avuto la grazia di essere stati fatti a immagine e somiglianza di quel volto. Quella immagine è stata impressa in modo indelebile tanto che può essere offuscata ma mai distrutta: sono e resto figlio! Nella vita, però, può accadere di perderne le sembianze. Cos’altro è l’esistenza se non un recuperare ogni giorno di più i tratti di quel volto che a Cristo più somiglia? Grande è la grazia concessa alla Veronica ma infinitamente più grande è quella concessa a noi!

 

La moglie di Pilato 

Me la immagino: aveva fatto un brutto sogno. Meglio non avere a che fare con quel giusto. Cosa si saranno detti lei e suo marito quella sera? Il volto di quel giusto non lo dimenticherà così facilmente: non era uno dei tanti che suo marito faceva appendere a una croce come monito per chiunque avesse osato opporsi al potere Roma. Quell’uomo era diverso. Pilato! Non puoi negare di esserne stato colpito anche tu. La condanna di Gesù è stata compiuta più per il tuo disinteresse che per la tua autorità. Se solo avessimo un po’ più a cuore chi e ciò che la vita fa in modo che abbia a che fare con le nostre esistenze! Ti sei ritrovato con mani lavate e con bocca impura: hai proferito la condanna di Gesù con le stesse labbra con cui poco prima lo avevi riconosciuto innocente quando gridavi: ma che male ha fatto? La ragione di Stato, gli interessi da tutelare, gli equilibri politici e altre infamie avvolte di nobili ragioni hanno nella storia allungato all’infinito la fila delle vittime innocenti umiliate e uccise.

Claudia (questo il nome che la tradizione darà alla moglie di Pilato, poi convertitasi) avrà visto il volto cereo di suo marito dopo che quell’uomo era stato portato via. Avrà visto senz’altro suo marito pensare che forse sua moglie aveva ragione nel dirgli di lasciarlo andare. Oh sì! Avrà visto certamente suo marito continuare a ripete: la verità… cos’è la verità?
Pilato, devi ammetterlo. Con pochissime parole quell’uomo ha smontato tutto un mondo, tutto un modo di vedere le cose. Non sei stato padrone della vita di quell’uomo neppure per un momento. Te l’ha detto chiaramente: tu non avresti alcun potere su di me se…
Ora non c’è più: è morto. Il suo corpo riposa quieto estraneo al tormento che invece ti rode dentro. A roderti dentro è il dubbio: davvero non avrei potuto far nulla per cambiare le cose? Ma devo ammetterlo: avrei dovuto essere più insistente, più risoluta. Che cosa sarebbe se le donne e i loro sogni di pace fossero ascoltati?

 

Il centurione

Anch’egli, quella sera, avrà pensato: non era mai accaduto che un condannato a morte mi segnasse così. Eppure ne ho visti. Certo: non è il primo che mi dà la netta sensazione di essere innocente. Ma quest’uomo era diverso, tanto diverso!

Com’è possibile che un uomo muoia con un tale spirito di abbandono? Come può usare parole di perdono per quegli avvoltoi che gli giravano attorno famelici? Non una bestemmia. Non un urlo di rabbia. Quasi avesse scelto lui di morire così: maledetto da Dio, abbandonato da tutti e sulle labbra parole di scusa: non sanno quello che fanno!

A pensarci ho i brividi: ha chiesto perdono al suo Dio anche per me, vale a dire per uno che poche ore prima si era divertito a sputargli in faccia, a disfargli il muso con pugni, a smembrare il suo corpo con la frusta. Sì, proprio per me che sghignazzavo a sentire gli insulti dei soldati e dei passanti. Io che avevo le lacrime agli occhi tanto ero divertito.

Quanto sono diverse, ora, le mie lacrime! Come può un uomo non piangere dopo aver visto un altro uomo morire così? Ricordo bene il terremoto accaduto alla sua morte: sento ancora il terreno che si muove sotto i miei piedi: come se da un momento all’altro la terra si aprisse per inghiottirci tutti. Veramente quell’uomo era il figlio di Dio! Come potrei vivere d’ora in poi come se nulla fosse accaduto?

Pietro

Non canterà il gallo…

Una grande passione abita il cuore di Pietro: riuscire a fare qualcosa per Gesù. Tuttavia, proprio non riesce ad accettare che Gesù possa fare qualcosa per lui. Pietro fatica ad accettare la propria condizione di povertà e il relativo bisogno di salvezza. È il classico tipo che ritiene di non aver bisogno, di essere migliore: se tutti dovessero… io no…

Pietro non è soltanto presuntuoso: egli è animato da amore, da amicizia. È sincero quando si dichiara pronto a dare la vita. Quante volte anche noi all’interno di una relazione, di un’amicizia ci diciamo pronti a fare per l’altro tutto quanto è necessario: non è in fondo quello che una coppia promette nell’istante in cui si dice disposta a giocare la vita l’uno per l’altro e l’uno con l’altro nel giorno del matrimonio? Ci abita una sincerità di fondo quando facciamo dichiarazioni del genere. Tuttavia, però, non sempre siamo sufficientemente consapevoli della nostra fragilità. Pur essendo sinceri non siamo veri: ci sfugge, cioè, una reale lettura e comprensione di noi. Gesù chiede a Pietro un passaggio: dalla sincerità alla verità. In quell’istante, infatti, Pietro ignorava le sue zone d’ombra più nascoste e la sua inconfessata debolezza.

Gesù gli fa capire che egli non è migliore degli altri, anche lui può conoscere l’ora dello smarrimento più pieno. Pietro deve comprendere che non si dà la possibilità di essere annunciatori del vangelo senza aver fatto personalmente l’esperienza della misericordia di Dio e senza una capacità di comprensione e di compassione verso i limiti dei propri fratelli nella comunità cristiana e fuori da essa.

Come vorrei ricominciare tutto daccapo! Chiudere gli occhi e riportarmi indietro di almeno dieci giorni. Se solo mi avesse detto più chiaramente come sarebbero andate le cose! Non è vero che l’ho abbandonato. Io non sono scappato come tutti gli altri. Da lontano provavo a capire cosa gli stessero facendo. D’altronde ero solo: cosa avrei potuto fare? Non avevo neanche un bastone con me. Per giunta sono stato anche riconosciuto: se non avessi negato avrebbero rinchiuso anche me con lui.

Cos’avrei potuto fare per lui nel chiuso di una prigione?

Quegli occhi! I suoi occhi! A tutta prima mi sembravano occhi di delusione e di amarezza per quella solitudine in cui lo avevo cacciato. E, invece, ho scoperto essere occhi di amore, di misericordia. Me li rivedo ancora mentre mi fissano. È solo la memoria di quegli occhi di perdono che mi fa superare ciò che ogni mattina, al canto del gallo mi ripeto: vigliacco. Questo mi urlava il mio cuore quel giorno, questo mi urla dentro ogni giorno. Sono un vigliacco. Ma sono un vigliacco a cui il Signore ha dato la possibilità di essere ricreato col suo perdono. Non già perché finalmente io abbia imparato la lezione.

 

Simone di Cirene, la vocazione ad actum

Ho provato a intrufolarmi tra la folla che segue quello strano spettacolo lungo la via del Calvario. Ad essere condannato, non uno dei soliti malfattori ma uno che, al dire dello stesso Pilato, non aveva fatto nulla di male.

Ad un tratto m’accorgo che Gesù non ce la fa: cade stremato a terra. A pesare è sì, certo, il legno della croce ma ancor più tutto ciò che quel legno rappresenta. A pesare è il non riconoscimento del bene compiuto, è intraprendere quella strada che lo vedrà appeso ad un patibolo per uomini che preferiranno ritirarsi nel loro proprio, come egli stesso aveva predetto. Conosco anch’io la fatica e la ripugnanza quando ciò che fai per qualcuno non solo non è accolto ma, addirittura, non è riconosciuto o scambiato per altro.

Mentre lo vedo a terra, ecco comparire un uomo costretto – letteralmente – a caricarsi del patibulum e fare un tratto di strada accanto al condannato. Povero Simone di Cirene! Come se non bastassero le sue fatiche e i suoi crucci. Un ulteriore problema? Ancora una croce? “Avrei fatto meglio a starmene nei campi”, avrà pensato il povero Simone, “guarda in che guaio che mi sono cacciato”.

Veniva dalla campagna, magari neppure sua: il lavoro dei campi è un lavoro di braccia e non è certo un divertimento. Chissà che fastidio deve aver provato nel doversi accollare un peso che non gli apparteneva! Di quante cose è memoria quel suo venire dalla campagna! Eravamo stati pensati per godere di ciò che Dio aveva messo a nostra disposizione senza conoscere l’onere della fatica e, invece, amaramente ci si era ritrovati dal disporre di ogni cosa al doversi procurare tutto col sudore della fronte. Quell’incontro lungo la strada del Golgota diventa riconciliazione con il Signore che entra nella nostra stessa fatica.
Eppure, quel tale, proprio per un incontro non volontario, entra nella storia stessa del Figlio di Dio, egli che fino a quell’istante era soltanto il signor nessuno.

Mi immagino il modo in cui Gesù avrà guardato Simone: se è vero che aveva fissato con amore il giovane ricco, che cosa non avrà riservato per quest’uomo che, suo malgrado, accetta di non passare oltre e diventa icona di chi è capace di portare il peso di un altro?
Lo sguardo di Gesù sarà stato ancora una volta uno sguardo di compassione, ma stavolta al contrario: chiede all’uomo di patire insieme a lui. Egli stesso, un giorno, per spiegare il diverso modo di stare al mondo dei suoi discepoli, aveva detto: a chi ti chiede di fare un miglio di strada con lui, tu fanne due. Eccolo Simone: non solo compie il tratto di strada ma fa suo anche il fardello che l’altro è costretto a portare lungo quella via. Simone scopre che nella sua umanità, Dio non ce la fa da solo. E così, egli che non ha ricevuto una particolare chiamata da parte del Signore come tanti dei discepoli, riceve una vocazione tutta particolare senza per una vera e propria azione di polizia, per dirla con gergo moderno. Una vocazione ad actum (all’occorrenza, per una circostanza), si direbbe. Quante volte la vita ci restituisce questa vocazione ad actum! Non gli è chiesto se è d’accordo, è semplicemente costretto; non ha avuto modo di pensarci su, non ha potuto prendersi il tempo necessario per il discernimento. Si trattasse almeno di una cosa lieta. Si tratta, invece, di una questione di sangue, una faccenda sporca.

Mc specificherà che Simone era padre di due che verosimilmente apparterranno alla comunità cristiana, Alessandro e Rufo. Un incontro fortuito con un malcapitato, in un giorno qualsiasi, diventa possibilità perché scaturisca la fede. Anche quella che poteva sembrare una carità forzata, conserva sempre una sua fecondità. Neppure il fastidio, il rifiuto, la fretta sono rifiutati quando si tratta di farsi carico di chi troppe volte è caduto sotto il peso della vita. La storia di quest’uomo ci ricorda che, talvolta, proprio mentre non passiamo oltre rispetto a qualcosa di imprevisto che ostacola i nostri piani, è possibile incontrare Dio pur senza averlo cercato. Dio entra nella nostra vita proprio quando neppure ce lo aspettiamo, quando ci sembra che altro debba essere il corso degli eventi.

Viene per tutti il momento in cui la vita estrae il tuo numero, senza chiederti il permesso, mettendoti faccia a faccia con la sofferenza. In quei frangenti non servono le parole: serve solo la disponibilità a compiere un tratto di strada insieme, ad alleviare una pena.
Lungo la via, Simone di Cirene prende il posto di Simone di Betsaida, il discepolo mancato, quello che non riesce ad aiutare Gesù. Proprio questa vicenda ci ricorda che si è discepoli non perché lo si dichiara con le labbra ma perché non ci si sottrae a quanto ci è chiesto di assumere, talvolta involontariamente e controvoglia. In quel momento Simone di Cirene, proprio come me, sente solo il peso di quel legno, non sa di stare facendo una cosa straordinaria, non conosce il valore di ciò che gli è piombato addosso. In realtà – lo capirà solo dopo – non è tanto lui a portare quella croce ma è lui ad essere portato da essa. Proprio come accade a tutti noi.

 

Barabba è il mio nome

Gli evangelisti riportano che durante le ultime ore di vita di Gesù, ci fu un tentativo da parte di Pilato di liberarlo lasciando che la folla decidesse se avere libero lui o Barabba. E sappiamo come andarono le cose. Ho voluto chiedere a quest’ultimo cosa abbia significato per lui essere preferito al Figlio stesso di Dio. Gli ho chiesto di guidarci prendendoci per mano perché non ci sfugga la portata di quanto stiamo celebrando in questi giorni santi.
Chi sei, Barabba? Sono un criminale, un dissidente, un “brigante”, un sobillatore, un combattente per la resistenza, “un prigioniero famoso” secondo il vangelo di Mt. Sono un personaggio scomodo, un nemico di Roma. Sono uno che ha vissuto di espedienti. Mi trovo in carcere perché arrestato durante una sommossa in cui c’è scappato il morto. Sì, ho ucciso. E la pena prevista per un simile reato era la morte. Chi l’avrebbe mai pensato che la mia vita potesse avere tutt’altro sbocco rispetto a quello previsto dalla legge? Mi sono ritrovato accanto ad un innocente, il quale non era reo di nulla. Anzi: era passato sanando e beneficando quanti erano prigionieri del male. Io avevo tutti i motivi per essere messo a morte, lui no: senz’altro sarebbe stato risparmiato. Non si può essere uccisi per essersi proclamato figlio di Dio. Allora io che dovrei dire? Io porto nel mio nome il motivo della sua accusa: Barabba non significa, forse, figlio del Padre?

Le cose, però, andarono diversamente: lui condannato, io liberato. L’innocente al posto del colpevole. A me fu dato il titolo, il valore e la dignità del figlio amato da Dio. Davvero Gesù “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso” per rivestire me di ciò che per natura spettava solo a lui.

Alla folla furono offerti due figli perché essa potesse fare la sua scelta. Essi incarnano due modi diversi di stare di fronte alla vita, alla storia: io ero il prototipo dell’azione violenta per essere finalmente liberati dal potere di Roma, Gesù, invece, predicava misericordia, amore, mitezza. Cosa scegliere? La prevaricazione o la strada del perdere se stessi?

La folla scelse e le cose si capovolsero: la grazia per il peccatore ha significato la condanna del giusto. Son davvero strani i pensieri degli uomini quando in nome di una legge finiscono per venir meno alla giustizia: legali ma non giusti. Accadde quel giorno, accade ogni giorno. La folla decise di restituirmi la libertà pur sapendo che cosa essa significasse per me: avrebbe preferito altri morti e altre sommosse piuttosto che misurarsi con l’alternativa rappresentata da Gesù. Il popolo sapeva che pur essendo un uomo libero, in realtà io sarei rimasto sempre prigioniero della mia volontà di distruzione mentre quel Gesù in catene rimaneva libero di fare ancora del bene pur ridotto all’impotenza.

Eppure, se ci pensi, questa è la storia della salvezza: per riscattare lo schiavo è stato sacrificato il figlio. Il Figlio di Dio Gesù si mette al posto del figlio Barabba: al mio posto nella lontananza e nella prigionia diventando addirittura separazione e peccato. Il Figlio di Dio cede tutto di sé perché ogni Barabba, ogni figlio di Dio possa recuperare la sua dignità. Già, Barabba è il mio nome, ma può essere a buon diritto anche il vostro.

Tutti eravamo meritevoli d’ira, nessuno escluso. Su tutti pendeva una sentenza di morte. “Ma Dio, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati ci ha fatto rivivere in Cristo”. Io, Barabba, sono figura dell’umanità nuova che nasce dalla morte di Cristo. Se Gesù non avesse accettato di essere obbediente fino alla morte e alla morte di croce, quel giorno avrei intrapreso senza dubbio la strada del patibolo.

Tanti si sono chiesti che cosa ne fu della mia vita dopo quel giorno. No, non perdere tempo a curiosare. Soffermati piuttosto su te stesso: tu sei Barabba. Che cosa vuoi farne di questo mirabile scambio?

Per bocca di Pilato è Dio che chiede: “Chi volete che vi liberi?”. Si tratta di una domanda a noi posta infinite volte durante l’arco della giornata.

“Chi volete che vi liberi”, la libertà perseguita con la violenza e che rende l’uomo schiavo di se stesso o quella raggiunta attraverso il dono di sé?

“Chi volete che vi liberi”, il giusto o il conveniente, il profitto immediato o la verità?

 

Nicodemo, rinascere dall’alto

Quella di Nicodemo è, forse, una figura marginale ma non per questo meno eloquente di altre: il gesto di profumare un cadavere, infatti, dice tanto ad una economia del calcolo e del buon senso. La tradizione farà di lui il primo scultore di crocifissi, tanto dovette segnarlo l’esperienza dell’accogliere Gesù deposto dalla croce.

La sua storia ha inizio in una notte in cui avrebbe desiderato capire qualcosa di Gesù. L’annotazione cronologica – di notte – sintetizza bene il clima interiore di Nicodemo: è alla ricerca della luce e allo stesso tempo è confuso. Aveva raggiunto Gesù mosso dalla pretesa di credere sulla base di segni evidenti. Aveva scelto le ore notturne forse per paura: era rischioso compromettersi apertamente. Quel maestro lo inquietava, subiva il fascino della sua persona, dei suoi gesti come delle sue parole. Ma non osava schierarsi a suo favore apertamente. D’altronde, se lo avesse fatto, sarebbe stato espulso dal suo gruppo di appartenenza. Avrebbe voluto conciliare un dialogo con Gesù senza sbilanciarsi pubblicamente. Quella notte Nicodemo appariva preoccupato di sé, attento alle sue domande: aveva bisogno di certezze. Gesù avrebbe voluto dischiudergli uno sguardo nuovo, ma non era ancora possibile. Quanto è lento il cammino della fede!

Era andato da Gesù ma nel dialogo con lui aveva usato il plurale: “Maestro, sappiamo che sei venuto da Dio… nessuno può compiere i segni che tu compi, se Dio non è con lui”. Parlava a nome di una categoria all’interno della quale trova sicurezza. Il peso dell’opinione altrui aveva la meglio su di lui. A partire da quello che aveva visto, si era fatta una sua convinzione: sei venuto da Dio. Sembrerebbe fede la sua, ma una fede ferma ai segni che non diventano segno. Quante cose vediamo anche noi senza però lasciarle parlare!

A lui Gesù aveva fatto capire che il problema serio è vedere il regno di Dio e per farlo è necessario nascere dall’alto. Era andato da Gesù convinto di sapere ma ad un tratto deve ammettere di non capire: come può accadere questo?

Quella notte, il colloquio con Gesù non aveva sortito l’esito sperato. Nicodemo se ne era tornato a casa ancor più confuso di prima: era incapace di compiere ciò che Gesù gli aveva proposto, rinascere. E, tuttavia, quel Maestro lo incuriosiva, lo intrigava. Quanto è lento il cammino della fede! Non poche volte parte da molto lontano, da resistenze, dubbi, incomprensioni, paure, riserve! Gesù ha attenzione per questo lento maturare della fede. Non ha fretta: non conosce i ritmi delle nostre agende. Per lui non è mai troppo tardi.

Verrà un momento in cui Nicodemo comincerà ad esporsi e prenderà le difese di Gesù, anche se in modo neutrale. L’occasione sarà il mancato arresto di Gesù da parte delle guardie le quali, affascinate anch’esse da Gesù, avevano concluso: “Mai un uomo ha parlato così!”. Ai sacerdoti e ai farisei che protestavano per l’accaduto, Nicodemo aveva fatto notare come non fosse possibile giudicare qualcuno senza prima averlo ascoltato. Il suo intervento gli aveva procurato la denigrazione del suo gruppo: “studia e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta”. Prima era stato Gesù a fargli prendere coscienza che pur essendo maestro in Israele, egli non sapeva certe cose, ora sono i suoi colleghi a invitarlo a riconoscere di non sapere. Povero Nicodemo! Aveva dovuto incassare un duro colpo: essere denigrato pubblicamente come uno che non è preparato.

Tutto sembrava farlo ripiombare nel baratro di un vicolo cieco. E, invece, non sarà così. Appena Gesù muore, quello che era nelle tenebre comincia a venire alla luce. E il pauroso Nicodemo viene fuori, si espone, va egli stesso da Pilato. Porta con sé più di 30 chili di profumi (100 libbre): per ungere un cadavere sarebbe bastata mezza libbra! 100 libbre era ciò che occorreva per la consacrazione del tempio. Nicodemo, finalmente, ha capito: è Gesù il tempio di Dio tra gli uomini. Chi vuole avere accesso a Dio deve passare attraverso Gesù.

Che strano! Un uomo fedele osservante non teme di entrare a contatto con un defunto: la cosa lo avrebbe contaminato e non gli avrebbe consentito di fare la Pasqua ebraica. Nicodemo riconosce che è Gesù la vera Pasqua: lui è il segno della salvezza che Dio offre ad ogni uomo, anche a chi arriva alla fede a stento e, forse, in ritardo.

Nicodemo aveva avuto bisogno di spogliarsi della sua pretesa di sapere facendosi interrogare da Gesù come un discepolo: quanto gli costava passare dal sentirsi maestro al farsi discepolo! Aveva dovuto smettere l’aria supponente del “noi sappiamo” e riconoscere di non sapere. Aveva toccato con mano l’aria asfittica del suo ambiente in cui ci si professava maestri ma senza ascoltare. Ma a quel mondo Nicodemo aveva consegnato una domanda che vale un’intera esistenza: come è possibile giudicare senza prima aver ascoltato?

Alla fine della vicenda Nicodemo sceglierà il silenzio. Sarà Giuseppe d’Arimatea a parlare con Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Nicodemo non ha bisogno di parlare, ora ha bisogno di agire. Arriverà all’esperienza della fede solo sotto la croce, quando non ci saranno più miracoli, non ci saranno segni evidenti. Resterà un segno, però: quell’uomo appeso ad un patibolo che è scandalo per i Giudei e salvezza per chi riconosce in lui quanto l’umanità stia a cuore a Dio. Ora sa, Nicodemo, cosa vuol dire rinascere: leggere nella contraddizione non il segno di un fallimento ma quello di una nuova possibilità offerta.

Alla fine Nicodemo non dirà più: sappiamo. Ora sa. Ora comprende il senso di quelle parole pronunciate da Gesù la notte del loro primo incontro: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. E può rinascere.

 

Giuseppe d’Arimatea, il coraggio di farsi avanti

Sembrava tutto irrimediabilmente perso. Tutto era finito conficcato a quella croce. Una volta di più era evidente che quell’uomo era un impostore, un bugiardo: non era stato in grado di salvare se stesso, come avrebbero potuto credergli? Tuttavia, proprio nel cuore del dramma, comincia a germogliare qualcosa di inatteso. Già quello stare delle donne e del discepolo amato era il segno che forse ci si può misurare con la morte non in modo univoco. Ma c’è una figura che oggi mi accompagna più delle altre e vorrei condividerla con voi. Si tratta di Giuseppe d’Arimatea. È colui che va da Pilato a chiedere il corpo di Gesù. Nessuno avrebbe messo in conto un tale gesto da parte di uno sconosciuto. Giuseppe è il primo frutto inatteso di quella morte. Quante volte su alcune persone non scommetteremmo affatto. Giuseppe attesta che non sempre il seme della Parola di Dio porta il frutto in modo immediato. Talvolta sono necessari anni perché esso possa germogliare.

Giuseppe occupava una posizione sociale di un certo livello: si trattava di un uomo che in seno al Sinedrio godeva di una certa stima per la sua rettitudine e per il suo zelo. Un uomo che pur essendo discepolo di Gesù, per paura di ritorsioni, esitava a venire allo scoperto. Viveva la sua fede di nascosto, nel segreto. Sempre un passo indietro; simpatizzante ma non coinvolto. Di certo non schierato. Provava affetto sincero per Gesù: le sue parole lo avranno senz’altro conquistato.

Forse, dato il ruolo che occupava, fu facile andare da Pilato a chiedere il corpo. Molto meno confessare il motivo per cui lo faceva.

Rassomiglia tanto a noi quando, pur nutrendoci della Parola di Dio, pur riconoscendo l’importanza del Signore per la nostra vita, viviamo sempre in una sorta di limbo perché non abbiamo la forza di testimoniare pubblicamente la nostra fede.

Che cos’è che all’improvviso lo fece uscire allo scoperto, accettando addirittura di contaminarsi, visto che metteva a disposizione di un uomo maledetto la sua tomba? Lo fece nel momento in cui sarebbe stato senz’altro più prudente restare nascosti vista l’aria che tirava in città. I discepoli della prima ora, infatti, non a caso erano tutti fuggiti nel loro proprio. Fino a quel momento provava vergogna a manifestare la sua fede; ora si ritrova addirittura coinvolto in una vicenda infamante. Lo fece per amore di Gesù: ad un tratto il torrente aveva tracimato e rotto gli argini. Non poteva continuare in clandestinità. Giuseppe aveva riconosciuto in quel corpo morto un seme capace di fecondare l’umanità per questo non aveva esitato ad accoglierlo nel suo sepolcro. Giuseppe riconosceva che d’ora in avanti non aveva più un suo proprio; la sua identità era indissolubilmente legata a quella di quell’uomo morto.
Giuseppe ci ricorda che non si può trascorrere la vita a essere discepoli nascosti di Gesù. Giuseppe ci insegna a riconoscere i tempi giusti: forse questo è il momento opportuno per mettersi in gioco.

Ci sono momenti in cui è necessario superare la logica della tutela dei propri interessi e correre il rischio di esporsi.

 

Madre ancor

Mi ha sempre colpito il fatto che la nostra devozione abbia riconosciuto in Maria una sorta di canale privilegiato per tenere viva la speranza quando l’abbiamo vista minacciata nella nostra o nell’esistenza di persone a noi care. Quante volte mi è capitato di “spiare” lacrime furtive di uomini e donne che nel silenzio di questa nostra chiesa, inginocchiati, racchiusi nel loro dolore, hanno consegnato a Maria la loro pena e la loro apprensione! Perché? Perché questo feeling che si riannoda tutte le volte in cui un dolore visita la nostra vita? Perché sappiamo che se è vero che il cuore di una madre è senza transenne, lo è molto di più quello di Maria. Tutto ciò che le capita attorno, diventa parte di sé. Accadde un giorno a Cana, accade ogni volta che qualcosa minaccia la nostra gioia e mina la nostra speranza: “Non hanno più vino”, continua a ripetere al Figlio.

Noi ricorriamo a lei nell’ora della prova perché siamo fermamente certi che ella può capire cosa si passa quando stringi un figlio morto tra le braccia. Ricorriamo a lei perché sa cosa significa conoscere l’amara esperienza di una vita spenta prematuramente. Ci sono prove che segnano la mente, il cuore, il corpo e Maria le ha conosciute. Quale madre non sarebbe disposta a prendere su di sé la croce che è toccata a un figlio? Può sembrare una follia, ma quale madre non lo farebbe, a meno che non abbia perso il senno?

Ben a ragione san Giovanni Crisostomo scrisse: “La donna, anche se deve morire una volta sola, ha paura per tante morti. E anche se possiede un’anima sola, si preoccupa per tante anime. Trema per il marito, trema per i figli. Più la radice ha messo germogli, più aumentano le trepidazioni”. Noi sentiamo Maria come madre perché percepiamo che la nostra trepidazione è anche la sua. D’altronde, proprio mentre Gesù prendeva congedo da noi, l’ha lasciata a noi come madre. Nulla avrebbe potuto arrestare il suo affetto materno e per questo avrebbe continuato a pronunciare il suo “sì” al Padre, ogni volta che uno dei suoi figli avesse conosciuto l’ora dell’amarezza e dell’abbandono. Ella esaurirà il suo compito solo quando l’ultimo dei suoi figli avrà smesso di avere bisogno della sua premura: ovunque ci sarà un dolore da compatire, Maria non cesserà di essere madre e non smetterà di soffrire per i nostri errori e per le nostre lacrime come per le nostre chiusure e per le nostre illusioni.
Quando l’angelo le aveva portato l’annuncio della nascita del Figlio di Dio, forse non aveva ancora messo in conto che quel sì significava anche accettare di presiedere alla nascita dei figli di Dio e così da madre di un Figlio unico, ha finito per ritrovarsi madre di una interminabile schiera di uomini soli. Chissà che cosa le sarà costato di più, se l’essere madre del Figlio di Dio che le ha procurato ben sette spade trapassate nell’anima, o l’essere madre dei figli di Dio che le ha procurato uno stillicidio continuo!

Pur avendo ricevuto da Dio una vocazione singolarissima come non ci sarà eguale nella storia, Maria non ha mai smesso di essere una di noi. Non c’è categoria umana che non la senta Madre sua: apostoli, martiri, confessori della fede ma anche afflitti, peccatori, infermi, come ci ricordano le interminabili litanie della sofferenza o della maturità umane. Ha conosciuto per condizione e per scelta lo stile dell’ultimo posto.

Giovanni la presenta come piantata: “Stava presso la croce”, come se quello fosse il suo luogo abituale, come chi è presente ad un appuntamento a cui non può mancare. Essere madre, la più grande ricchezza, ma anche la peggiore prigionia: ti liberi da tutto, ma non dall’amore. Per questo è lì. È vero: per le madri è come se i figli non crescano mai completamente.

Riesce a stare accanto al dolore solo chi ha accettato di compiere il pellegrinaggio più difficile: quello di andare oltre le ragioni della ragione, quello di chi, lasciandosi guidare dal cuore, abbraccia senza attendere il contraccambio e comprende senza pretendere.
Aveva ragione don Milani quando diceva che esistono due tipi di parto: se per il primo è necessario l’apparato genitale, il secondo, invece, non può avvenire se non mediante l’amore, la cura, la parola, i sacramenti. Chi è più madre? Chi ha donato i cromosomi al figlio o chi gli ha plasmato l’anima aiutandolo a scoprire il senso della vita?

Ecco il compito che il Figlio Gesù affida alla Madre sua: e questo compito durerà finché sulla terra ci sarà qualcuno da amare aiutandolo a fare della sua vita un dono. Come lei. Ma questo è anche il compito affidato a ciascuno di noi.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (I. Calvino, Le città invisibili, p. 164).

 

Il compagno dell’ultima ora, un diverso modo di essere uomini

Talvolta accade che per tutta una serie di circostanze e di situazioni avverse, ci si convinca che il tempo per amare sia ormai concluso e che non esista più la possibilità per un ultimo gesto che ridoni bellezza a qualcosa che sembra esser sfuggito di mano. Stando però a quello che ci riporta il vangelo, non c’è istante e non c’è situazione che non possa conoscere un esito diverso. Lo intuisce molto bene quello che la tradizione ci consegnerà come “buon ladrone”.

Di fronte alla rivelazione di un Dio che si lascia condannare alla sua stessa pena, intuisce che si sta giocando qualcosa di unico e di imperdibile. Contrariamente a quanto forse aveva creduto fino a quell’istante, intuisce che la salvezza non coincide con un atto di forza che strappi dalla vergogna e dall’impotenza, ma con un amore che sceglie di restare fedele persino quando sembra non ne valga più la pena.

Di fronte alla rivelazione di un Dio che sceglie di soffrire con umiltà e mitezza, scopre che esiste un diverso ordinamento rispetto a quello che egli aveva fatto suo fino ad allora: se quel condannato come lui è capace di non rispondere con disprezzo agli oltraggi ricevuti e addirittura usa parole di perdono, allora deve proprio esistere un diverso modo di essere uomini.

Di fronte alla rivelazione di un Dio che assume su di sé persino il dolore e la morte, comprende che una esistenza fatta di sospetti, violenze, prevaricazioni, offesa della dignità altrui non ha sbocco, non ha futuro. È seme di eternità, invece, tutto ciò che dice rispetto e riscatto dell’altro.

Di fronte alla rivelazione di un Dio che raggiunge l’uomo persino sulla croce, il buon ladrone intuisce che diversa è la destinazione per chi ha scelto di stare nella vita ridonando fiducia e bellezza rispetto a chi non ha fatto altro che sottrarre, offendere, calpestare. Intuisce che a nulla potrebbe servire la liberazione immediata come chiedeva l’altro malfattore, se questa non è altro che il perpetuarsi di una logica di morte. A che serve essere liberi di infliggere la morte ad altri?

Di fronte alla rivelazione di un Dio che scende nell’abisso della morte, il buon ladrone esprime una fede che non ha precedenti: non ci sono miracoli, non parole che possano convincere. C’è solo un Dio che morendo accanto e come l’uomo peccatore attesta fino a che punto siamo amati.

Di fronte alla rivelazione di un Dio ostinato nell’amore, il buon ladrone comprende che il legame con questo Dio non si esprime in un atteggiamento di sudditanza ma in una esperienza di comunione: Oggi, con me…

Anche nel momento più estremo, quando le forze sono da risparmiare per non aggiungere dolore a dolore, Gesù non si isola nella sua tragedia personale ma, nella sua misericordia, apre ancora il cuore all’accoglienza. Non è forse vero che amare è anteporre il bene di un altro al proprio? C’è sempre spazio nel cuore di Dio, fino alla fine, persino quando tutto sembrerebbe irrimediabilmente perduto.

Nell’interessarsi di quell’assassino, Gesù consacra la grandezza della persona umana: anche nel suo limite più basso, l’uomo è ancora degno di essere amato.  Prima di infrangere la barriera della morte, Gesù ne infrange un’altra: quella della disperazione. Fino all’ultimo istante della vita e nella condizione peggiore di essa, si può sperare nella salvezza. A dire che l’uomo vale più della legge e che non c’è lontananza che non possa essere raggiunta dalla misericordia del Padre. Questa è la nostra fede: questo dà speranza ai nostri giorni.

Mentre la logica della storia avanza per esclusioni e per separazioni, il regno di Dio non esclude nessuno. Quelle braccia distese e inchiodate sono lì a memoria perenne di una accoglienza che non è per un tempo o per una categoria di persone, ma per ogni circostanza e per ogni uomo.