“Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”.
Sono le prime parole che ieri mattina presto sono risuonate nel mio cuore dopo aver parlato con Paola che mi confermava tra le lacrime ciò che mi aveva appena scritto per messaggio. Una vita, quella di Giuseppe, stroncata nel pieno della sua maturità: aveva compiuto 50 anni proprio lo scorso 14 dicembre e da pochi giorni era ricoverato in ospedale per uno di quei colpi che si abbattono come un fulmine a ciel sereno.
“Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”.
Uomo mite, generoso, disponibile, legato ai suoi cari, i genitori in primis, era un punto di riferimento per ciascuno di loro. Proprio nei giorni della sua degenza aveva sentito il bisogno di scrivere nella chat di famiglia: “vi voglio bene”.
“Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”.
Il racconto della morte di Lazzaro registra le nostre stesse domande, talvolta espresse con le parole e talaltra manifestate con le lacrime, quelle che scorrono sul nostro volto quando ci accorgiamo di non reggere il furto che la morte viene a infliggere spezzando il filo dei nostri legami.
Patiamo eccome l’angoscia del distacco, gli addii: Signore, se tu fossi stato qui…
E mentre patiamo questo dolore, i nostri occhi incrociano il Signore che, “per grazia, non è un Dio dagli occhi asciutti”.
Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di quello sguardo che riesce ad attribuire ad ogni evento un senso perché tutto legge dalla prospettiva di un Dio che non è mai contro di noi.
“Se tu fossi stato qui…”. Ci è difficile reggere l’assenza di Dio, ci è difficile sopportare un Dio che sembra sordo alle nostre domande. La tentazione di fuggire è molto forte. E possiamo fuggire in tanti modi. Rimuovendo il problema o trovando vie che immediatamente possono sembrare più allettanti ma che in realtà non fanno altro che rimandare la domanda che puntualmente si ripresenta.
Ci è difficile “stare” in quei passaggi della vita che immediatamente non comprendiamo e che nondimeno possono essere attraversati nella misura in cui abbiamo imparato a riporre fiducia in qualcun altro. Vorremmo che il Dio nel quale crediamo ci risparmiasse questi passaggi. Eppure non è così. E non è così non per chissà quale strana congiura da parte sua nei nostri confronti. Ma perché non è dato gustare la vita vera se non attraverso dei travagli. Noi tutti ci portiamo dentro la convinzione che se c’è un Dio questo Dio è un Dio che preserva, che salva, che risparmia.
Il Dio che Gesù è venuto a svelarci è un Dio che non salva neppure se stesso ma perde la vita.
“Gesù quando la vide piangere si commosse profondamente, e si turbò… e scoppiò in pianto… Vedi come lo amava”.
Ci emoziona il pianto di Gesù davanti al sepolcro dell’amico. Dio piange per la morte, singhiozza per ogni morte. Ci sconvolge il fatto che Gesù chieda: togliete la pietra. Dio non è un Dio che chiude, ma un Dio che apre. Aveva aperto un varco a Israele, lo aveva aperto agli apostoli impauriti dopo l’annuncio della sua morte portandoli su un luogo dove si era trasfigurato, lo ha aperto per il suo amico Lazzaro. Oggi lo apre per ciascuno di noi.
La vicenda di Gesù ci invita a riconoscere che, forse, anche nella nostra vita c’è una pietra che chiude e che soffoca. E non sempre è una pietra materiale. Quella pietra è figura di tutto ciò che pesa sul nostro cuore di uomini e donne.
Pietra può essere la paura che ci chiude e ci soffoca, tutto ciò che in noi e attorno a noi spegne i sogni, l’arrenderci alla rassegnazione, il rimanere nella logica del calcolo. C’è il rischio anche per noi di vivere nella prigionia di una tomba quando nessuna ombra di futuro attraversa le nostre giornate. Ed è facile arrendersi alla morte.
Il fatto che Gesù chieda di togliere la pietra sta ad indicare che non ci si può abbandonare alla morte in maniera disinvoltamente normale. Chiede anche a noi di affidarci al pianto di una protesta, proprio come egli si ribella alla morte dell’amico.
Insieme al pianto il grido, un urlo addirittura: Urlò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori. È quanto ancora continua a fare per noi proprio tutte le volte che egli sembra in ritardo sui tempi della nostra capacità a tenere, a perseverare.
Passare dalla nostalgia alla speranza significa proprio non arrendersi, non rassegnarsi. Significa credere che si possa ancora venir fuori proprio come gli ebrei dal Mar Rosso quando già avevano il fiato degli inseguitori sul collo. Significa credere che si possa venir fuori dal sepolcro, anche se il cadavere è già di quattro giorni.
Credi tu questo? Che cosa dovrei credere? Che non è normale che delle pietre ci chiudano. Quando giungiamo a ritenerlo normale abbiamo spento il grido di Dio.
Dio è glorificato quando un uomo, una donna accetta di uscire da tutto ciò che soffoca la vita, l’intelligenza, la libertà. Qui Dio ha posto la sua gloria.
Se credi, vedrai.