Sette volte ed è già troppo! C’è un limite a tutto: direi che può bastare. Così ragiona il povero Pietro. E, invece, no. Mettere un limite al perdono, infatti, equivale a mettere un limite all’amore e mettere un limite all’amore equivale a mettere un limite alla vita. Può esistere un amore fino ad un certo punto? Non è un calcolo, piuttosto, un interesse? Me lo immagino il povero Pietro a far di calcolo, come a voler dare la risposta che credeva s’attendesse il Maestro. 70×7. 7×0=0; 7×7=49. Il problema, però, era che 70×7 non dà come risultato 490 volte, ma uno stile, un atteggiamento che trova nel sempre la risposta esatta. Quante volte dovrò perdonare? 490 volte e poi sono a posto? No: sempre, anche quando sei convinto di non farcela. Come si fa, Signore? Almeno qualche distinguo, della serie: se ne vale la pena, se lo merita, se è opportuno, se è in grado di comprendere quello che riceve, se me la sento, se non ci rimetto la faccia. Pietro intuiva che avere a che fare on il Signore richiedeva un allargamento dei suoi orizzonti e dei suoi calcoli. Intuiva pure di aver ricevuto molto grazie a quel particolare legame instauratosi col Maestro di Galilea e, perciò, di dovergli tanto, ma credeva che oltre una certa soglia si fosse dispensati. Non è forse quello che pensiamo anche noi? Mica si può vivere col vangelo alla mano. Il vangelo offre degli insegnamenti di massima, a noi, poi, fare le giuste applicazioni ed aprire qualche eventuale epicheia (il non tener conto di una legge quando nel singolo caso il suo adempiersi risulti immorale). Ma perché allora insistere su quel 70 volte 7? Perché noi siamo costitutivamente dei debitori insolvibili. Sul conto di ognuno di noi, nello stesso istante in cui venivamo concepiti qualcuno versava cash 10.000 talenti (300.000 kg d’oro!), una cifra spropositata che non dovremo mai restituire ma che saremo chiamati a investire con altrettanta magnanimità verso chiunque. Il tuo debito sarà condonato solo se sarai stato capace di credito verso qualcuno che aveva bisogno del tuo aiuto. Il debito inizi a restituirlo solo quando ti accorgi di chi invoca una briciola di quanto a te è stato partecipato con abbondanza. “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7). Di cosa non sono debitore? Della vita, dell’amore, del tempo, della famiglia, degli amici, del creato, della vita cristiana, di questa stessa celebrazione e di infinite altre realtà. Di tutto. Ho ricevuto tanto, tutto. Al dilagare del male si fa fronte solo con l’argine di un bene a dismisura: l’amore o è nell’ordine dell’eccesso o semplicemente non è. Non sono stato amato per scherzo. Perdonare non è girarsi dall’altra parte facendo finta che non sia accaduto nulla ma stare di fronte a chi ha sbagliato così come Dio sta di fronte a te: egli “non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe”. Perdonare non è segno di debolezza ma della forza che non inchioda nessuno per sempre al male commesso. Perdonare non è mettere bene e male sullo stesso piano: il male resta male e questo lo si può vincere non con altro male ma solo con il bene. Perdonare significa partecipare dello stesso atto creativo di Dio: proprio il perdono, infatti, è la cosa nuova che rimette in circolo la vita e interrompe la spirale di morte a cui tanto blandamente ci si abbandona quasi fosse la cosa più naturale. È solo il perdono che riplasma in noi la somiglianza perduta, quella degli inizi: per questo, non aprirsi al perdono significa discostarsi sempre di più dall’immagine secondo la quale eravamo stati concepiti da Dio. Perdonare significa accettare di essere all’altezza del sogno di Dio. È possibile perdonare solo se si accetta di porre il centro della propria esistenza fuori di sé. Che cos’è la fede se non trovare consistenza in un altro che non sono io? Può perdonare solo chi crede: chi commette un errore, infatti, può riconoscere di sbagliare ma non di peccare. Per questo non cerca perdono ma giustificazioni. Può perdonare solo chi sceglie di vivere per qualcosa di più grande del danno che può aver subito. E cosa c’è di più grande di Dio solo? Perdona solo chi sa di vivere “per il Signore”, cioè, grazie a lui e in vista di lui. Fuori da questo rapporto si può invocare una scusante ma non il perdono che non accampa scusa ma solo il gesto largo del trovare ancora uno spazio nel cuore dell’altro proprio quando non lo si meriterebbe. Vivere per il Signore equivale a riconoscere che niente e nessuno potrà mai impedire una simile appartenenza. Anzi, proprio l’esperienza del male subito sarà l’occasione per rendere manifesto ciò che dà senso ai miei giorni. Settanta volte sette, ossia in modo illimitato e incondizionato. Il perdono, infatti, è più uno stile di vita che un atto legato alla trasgressione; è un modo di porsi di fronte all’altro e alla sua debolezza, ma che non scatta esclusivamente in seguito alla caduta, anzi a volte la può impedire, perché è uno stile di bontà, comprensione, magnanimità, stile di chi non bada a quel che l’altro merita, né si scandalizza della sua miseria. Perché mai? Perché la persona misericor­diosa non può dimenticare d’essere anch’essa caduta tante volte senza subire condanne.
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Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 18,21-35
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».