croce bambinoEsagerato il Gesù di questa pagina evangelica. Quantomeno eccessivo, inopportuno, improprio, impopolare. Almeno così appare ad un primo ascolto del testo. Addirittura, un Gesù che scoraggia, un Gesù che allontana, un Gesù che per ben tre volte parla di impossibilità: chi non… non può essere mio discepolo. Lo riconosciamo: non ci è abituale questo tratto di Gesù.

Eppure, credo che questa parola vada lasciare decantare dentro di noi perché possa essere compresa oltre la crudezza delle affermazioni.

In qualche modo eravamo stati preparati: prima attraverso l’invito ad interpretare il tempo che ci è dato – anche questo nostro tempo – come occasione propizia (kairòs), poi attraverso quella porta stretta a partire dalla quale lasciarsi misurare, infine attraverso l’ammonizione a imparare, come lui, a scegliere gli ultimi posti. Da ultimo, oggi, la necessità di prendere la propria croce se vogliamo restare alla sua sequela, perché il discepolato non resti un dato anagrafico.

Cosa vuol dire prendere la propria croce? Non certo “dire di no alla vita” (Nietzsche). Quella che Gesù propone non è una prospettiva dolorista o rinunciataria come molto spesso abbiamo propagandato l’esperienza cristiana. La croce non è il negativo, le malattie o le sofferenze della nostra vita che poco o tanto ci tocca assumere.

Prendere la croce significa assumere un ben preciso progetto di vita, non di morte. Là dove sarebbe scontato declinare a dismisura i bisogni del proprio “io”, prendere la croce significa imparare a mettere al centro anzitutto quelli dell’altro; là dove la proposta di vita è quella del potere, prendere la croce vuol dire assumere lo stile del servizio; là dove la vita è letta come accumulo continuo, prendere la croce significa aprirsi all’esperienza della comunione e della condivisione. Proprio come lui, il Signore e il Maestro, il quale in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce (Ebr 12,2). Non perché costretto, ma per scelta: avrebbe potuto far diverso.

La croce non cade dal cielo, non è Dio a mandarcela. I discepoli dovranno assumerla da terra quando saranno pronti anch’essi ad essere segno di come ama Dio. Una croce da prendere, da raccogliere. Ciascuno la propria. Viene per tutti nella vita – e a volte anche più volte: Lc dirà in 9,23 “ogni giorno” – il momento in cui ci è chiesto di assumere la croce, vale a dire ci è chiesto di assumere un modo di stare nelle relazioni non preservandosi purché venga risparmiato l’altro, il fratello, l’amico, lo sposo, il figlio. Assumere la croce è segno della libertà di condividere la passione di Dio purché l’altro viva.

Non mettere mai a repentaglio la vita dell’altro per la salvezza della propria. Ecco in cosa consiste assumere la croce. È nel gesto che assume su di sé la violenza che pure si scatena nelle relazioni che sussiste la possibilità di un riscatto. Nel gesto che la fa esplodere al proprio interno per evitare che l’altro rimanga ferito. Comprendiamo perché, allora, la croce non è un incidente di percorso ma un preciso modo di stare nella vita.

Forse comprendiamo così il senso di quella espressione: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre…”. Cosa può voler dire? Che se noi non assegniamo un primato deciso al modo in cui Dio ama ogni sua creatura – fino alla morte e alla morte di croce – ogni altro affetto rimane, purtroppo, sempre esposto alla pressione del momento, all’onda del sentimento, che tante volte finisce per spingere a soddisfare se stessi in conflitto con ogni altro.

La scelta dinanzi alla quale siamo posti quest’oggi non è Gesù da una parte e la vita, gli affetti dall’altra. Non ci è chiesto di scegliere tra la vita e Gesù, un affetto e Gesù, ma tra la vita senza Gesù o la vita con Gesù. Perché, a suo dire, è questo che fa la differenza. Sì, la cosiddetta differenza cristiana. Gesù ha l’ardire di frapporsi tra noi e il nostro mondo affettivo per non lasciare che questo subisca continuamente i contraccolpi dei vari stati d’animo. Perché accada anche a noi quello che viene ripetuto nella liturgia a proposito di Gesù: avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine. Tutto di noi, anche i rapporti che definiremmo naturali, passati al vaglio del paradosso evangelico. Tutto di noi passato al vaglio del modo in cui Dio ama ogni sua creatura.

Non si è discepoli di un’idea o di uno slogan e neanche di un progetto di vita: si è discepoli di una persona. Il discepolato non lo si misura da ruoli o ministeri che pure si esercitano nella comunità cristiana: si può essere rappresentanti o ministri del Signore Gesù e non essere suoi discepoli.

Ognuno, perciò, misuri non tanto le sue reali capacità di far fronte ad una simile proposta di vita – chi di noi può dire se effettivamente ha le forze per farlo? – quanto la sua disponibilità a provare a stare nella vita come il suo Maestro. Fino in fondo.