soldiUna vertenza giudiziaria, di quelle da Forum: l’eredità. Qualcuno aveva ricevuto più di un altro: una vera ingiustizia che bisognava pareggiare. Come dar torto all’uomo che chiede a Gesù di intervenire a riguardo, ristabilendo l’equilibrio?

Il di più e il di meno ricevuti, infatti, lo abbiamo sempre letto come un contare di più o di meno. Insieme al latte materno abbiamo ciucciato pure la convinzione che chi ha ricevuto di più è amato di più e, perciò, vale di più. Abbiamo sempre visto come un torto il fatto che qualcuno abbia ricevuto un’attenzione diversa rispetto a noi perché, in fondo, abbiamo finito per equiparare l’amore con le cose che ci sono state messe a disposizione. Storia di ieri , storia di sempre: ci accompagna la convinzione che siamo tutti uguali e perciò parti uguali per tutti. Il problema è che non siamo tutti uguali, ognuno di noi è unico, irripetibile: la mia storia non equivale a quella di nessuno dei miei fratelli (sono l’ultimo di sei!). Il bisogno dell’uno non è il bisogno dell’altro, il cammino dell’uno non è quello dell’altro. Per questo dirà don Milani: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. È una illusione credere di misurare l’amore con la bilancia così da stabilire chi ha ricevuto di più e chi di meno. È vero: nessuno di noi ha ricevuto lo stesso amore di un altro ma proprio perché io non equivalgo a nessun altro. Ognuno amato in modo diverso. Quando manca la consapevolezza che anch’io ho ricevuto l’amore necessario per vivere, scatta il bisogno di accumulare, ovvero provvedere da sé all’amore che sembra non aver avuto.

Cosa c’era di sbagliato nell’uomo della parabola nel voler aumentare il suo capitale? In fondo era uno che ci aveva saputo fare, era stato intraprendente: non era certo stato a girarsi i pollici come tanti che aspettano che le svolte cadano da chissà dove. Inoltre, quel patrimonio non era stato estorto a nessuno, non era frutto di chissà quali raggiri finanziari: se l’era sudato. Era uno che si era fatto da sé, come si è soliti ripetere. Del resto, in un’altra circostanza il Signore ebbe a biasimare chi, per paura di mettersi in gioco, aveva sotterrato il talento mentre aveva lodato chi era riuscito a raddoppiarli e come risultato si era visto ancora aumentare la fiducia e la posta in gioco.

Cos’è, allora, che non funzionava in questo caso? L’aver attaccato il cuore alle cose: “alla ricchezza anche se abbonda non attaccate il cuore” (Sal 61,11). Guai a credere che il proprio punto di appoggio possa essere qualcosa che non ha alcuna consistenza. Il cuore è fatto per le persone, per il volti, per le storie, non per oggetti o traguardi, non per interessi o obiettivi.

Nella vita dell’uomo ricco erano le cose e soltanto le cose a dettare passioni, progetti ed analisi. La roba, di malavogliana memoria: era convinto che, così come poteva mettere al riparo dei ladri la sua roba, potesse mettere al riparo da quel ladro imprevedibile che è la morte, i giorni della vita: “hai a disposizione molti beni per molti anni”.

Ricco ma non libero, possidente e, tuttavia, posseduto, schiavo. Non c’era la possibilità del confronto con nessun altro, tant’è che quando non sa come fare per mettere al sicuro tutto quel ben di Dio, lui si fa la domanda e lui si dà la risposta. Abitato da sua principi che finiscono per divorarlo anzitempo: il “sempre di più” e il “solo io”.

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia”. Che cos’è la cupidigia? È il non accettare di darsi un limite: non riuscendo a riconoscere il bene di cui già si dispone e patendo una eterna insoddisfazione, ci si convince che la soluzione sia nell’aggiungere altro, e poi altro ancora, sempre di più, appunto, smodatamente e senza guardare più in faccia a nessuno. Paradossalmente, chi non riesce a tenersi lontano dalla cupidigia si ritrova a vivere proprio ciò che più vorrebbe evitare: per non conoscere l’amara esperienza della miseria sceglie di farla sua come stile. Non è forse vero che la paura ci fa sempre cadere proprio tra le braccia di ciò che temiamo?

L’uomo del vangelo, era esperto di due operazioni matematiche soltanto: aggiungere per moltiplicare. Non conosceva affatto cosa volesse dire sottrarre per condividere. Il possessivo si era tramutato in ossessivo (“mio… mio… mio…”) così da diventare vittima di quella malattia tanto asintomatica quanto nociva, a prima vista.: l’ipertrofia dell’io. È terribilmente solo ed autoreferenziale l’uomo del racconto evangelico. Unica la sua prospettiva: il suo piccolo/grande mondo. Nient’altro. Non aveva capito, che quel piccolo/grande mondo era solo vanità ossia un nulla evanescente (vaporoso nulla).