Avevo appena pubblicato sul mio blog la prefazione al libro su un confratello, in cui provo a tratteggiare alcuni elementi che rendono bella la vita di un prete (“La vita bella del prete”, appunto) allorquando, una carissima amica suora che da anni segue i miei commenti al Vangelo, mi scrive su whatsapp queste parole: “Bellissimo… …
Avevo appena pubblicato sul mio blog la prefazione al libro su un confratello, in cui provo a tratteggiare alcuni elementi che rendono bella la vita di un prete (“La vita bella del prete”, appunto) allorquando, una carissima amica suora che da anni segue i miei commenti al Vangelo, mi scrive su whatsapp queste parole: “Bellissimo… Quel giovane sacerdote di Novara che ieri si è tolto la vita, se avesse incontrato una guida come te, sono certa che non avrebbe compiuto quel gesto estremo”.
Di getto le ho risposto scrivendole: “Eppure, cara sr. Lucia, a mio fratello che ha compiuto il medesimo gesto estremo il 7 giugno di tre anni fa, non è bastato avere un fratello come me per aprire il suo cuore”. Come non è bastato a Giuda (che pure si pentirà di aver tradito il suo Maestro e Signore) sapere di avere a che fare con lo stesso Signore Gesù, vero Dio e vero uomo, per evitare il suo drammatico epilogo.
E lei, a commento, mi ha comunicato di aver pensato a me, appresa la notizia della morte di don Matteo.
Da quarantottore non si contano i post su questa morte e le condivisioni sui social: gli stati whatsapp hanno funzionato come una vera e propria cassa di risonanza della foto di Matteo e di parole a commento. Comprensibile, ci mancherebbe, sebbene alcune cose necessitino di silenzio e di sedimentazione, per evitare il rischio non remoto che pure una notizia simile scada nel bisogno compulsivo di un like a chi risulta più originale.
Inizialmente non avrei voluto scrivere nulla di fronte allo scialo di parole per lo più rispettose e di sincero dolore a cui, però, si sono aggiunte anche quelle più ciniche di chi invoca l’oblio e il silenzio per sempre che si devono a un suicida e addirittura quelle più irrispettose di chi ipotizza chissà quali trame oscure dietro una simile vicenda.
Poi ho ceduto. Sì, dopo l’ennesimo post commentato con un confratello, abbiamo concluso prendendo a prestito le parole dell’apostolo Paolo: “Qui stat, ne cadat” (1Cor 10,12: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”).
Mi ha dato molto da pensare ciò che era riportato su uno stato (non ricordo a firma di chi) in cui si accusa la Chiesa di essere tanto “istituzione” quanto poco “materna”. Avrà pure le sue responsabilità ma poi c’è qualcosa che ha a che fare con quello scrigno imperscrutabile che è il cuore dell’uomo e con quel recesso inviolabile che è la nostra coscienza.
“Il cuore dell’uomo è un abisso” (Sal 63,7). C’è una soglia che non ci è dato superare e che attiene al mistero della libertà della persona. Cosa impediva a mio fratello di parlarmi due sere prima del suo gesto quando è venuto a messa in cattedrale? Ha scelto di non farlo e io sono tenuto a rispettare una tale decisione che, oggi, diventa una parola per me. Ecco il senso di ciò che richiamavo a proposito dell’apostolo Paolo se non voglio che una morte come questa sia infeconda: “Qui stat, ne cadat”.
Come dimenticare le parole della mia guida spirituale a 27 anni quando, a fronte della condivisione di alcune fatiche, mi chiese a bruciapelo: “Ma di te chi si prende cura?”. Per quanto si faccia della retorica facile sulla vita fraterna e si invochi attenzione e cura da chi è preposto come guida, a marcare la differenza sono le relazioni corte, quelle più immediate, più quotidiane. “La virtù non s’impone”, ripeteva sovente il compianto amico don Antonio Petrone”, “la si sceglie”. E ciascuno deve farlo per la sua parte. Proprio ieri sera, un confratello che ha celebrato di recente un importante anniversario, commentando quello che scrivevo a proposito di presbiteri e di presbiterio, mi ha confidato: “Forse, è per questo che al mio anniversario c’erano solo due confratelli”.
A nulla servono i nostri sensi di colpa, affermavo nell’omelia per la morte di mio fratello: generano solo ulteriore amarezza. A nulla serve trovare un capro espiatorio che, finalmente, ci sollevi la coscienza. Piuttosto, è necessario che sia ancora la fede nel Signore morto e risorto a gettare luce nelle nostre tenebre.
Aveva ragione don Giussani quando scriveva che “la soluzione dei problemi non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta… Il particolare lo si risolve approfondendo l’essenziale”. Cos’è essenziale per me?
La fede nella risurrezione ci dà la certezza che l’amore di Dio è immensamente più grande del cortocircuito che può colpire la mente e il cuore di un uomo in un momento in cui misura tutto il peso della sua fragilità e tutta l’incapacità a reggerlo da solo.
Tra i vari commenti c’è stato pure quello di chi si sentiva autorizzato a leggere in un simile epilogo la non fede di un uomo che non ha saputo reggere il peso del momento. Per quanto frutto di un’angoscia che, talvolta, non sappiamo attraversare, non spetta a noi sentenziare se un gesto sia o meno espressione di rifiuto dell’amore di Dio. “Non vogliate giudicare nulla prima del tempo” (1Cor 4,5).
Il salmista ipotizza persino una situazione che sabato mattina deve essere stata la stessa di don Matteo: Se dico: almeno le tenebre mi coprano e intorno a me sia la notte (quella nella quale sei entrato tu in quegli attimi e che ora attraversiamo anche noi), nemmeno le tenebre per te sono oscure e la notte è chiara come il giorno… Anche là mi afferra la tua destra (Sal 138).
Dio ci afferra anche là dove noi pensiamo che egli non ci sia.
È vero, certi gesti sono eloquenti e ci dicono di non aver paura di parlare di noi e di ciò che ci tormenta e ci attanaglia. Ci invitano a consegnarci a qualcuno così come siamo, senza infingimenti. È vero, a volte è faticoso e imbarazzante, persino vergognoso, ma noi siamo molto di più, siamo immagine di Dio. Se è vero che per il peccato, per le nostre scelte nel corso della vita – persino una scelta come questa – possiamo perdere la somiglianza, non perderemo mai l’immagine: essa è impressa in noi per sempre. E Dio non cessa di ripetere. “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7).
Don Matteo, mio fratello Mario, non sono il loro ultimo gesto che per noi resterà incomprensibile: sono molto di più. A noi spetta mettere a dimora persino il seme del loro epilogo perché, per la grazia di Dio, diventi per noi germe di una vita secondo Dio.








