Sembra ieri e, invece, è già passato un anno da quando non abbiamo più potuto gioire della presenza fisica di Mario. E sebbene il dolore trovi con il tempo forme nuove per esprimersi, nondimeno è latente e costante nel cuore di quanti lo hanno conosciuto, amato e apprezzato.

Qualcuno ha scritto che la forma più alta dell’amore è quella di lasciare libere le persone anche con la paura che non le rivedremo più. Quanto è difficile accettarlo in questa situazione!

È per questo che abbiamo bisogno di lasciarci illuminare dalla Parola di Dio, unica fonte di consolazione e speranza.

Cosa c’è oltre questa nostra storia, quale approdo attende il nostro pellegrinaggio terreno? Cosa ci attende dopo la nostra morte? Ci attende davvero qualcosa, qualcuno?

Proprio la prospettiva del dopo, infatti, getta luce sul qui e ora di ogni nostra umana avventura.

Forse, apparteniamo anche noi alla categoria di chi professa un cristianesimo senza risurrezione, vale a dire, una fede che ha come unico orizzonte i giorni dell’uomo, nulla più: compiere il bene ed evitare il male (che è già qualcosa!). Un cristianesimo in cui il dopo è escluso, l’oltre non è frequentato, ritenuto com’è, solo un’invenzione di chi ha bisogno di trovare altre ragioni agli affanni dell’esistenza terrena.

Noi non riusciamo a pensare nulla secondo categorie nuove: al massino arriviamo a ipotizzare una riedizione riveduta e corretta delle cose ma credere che la realtà possa conoscere un nuovo ordine di cose è inammissibile.

Fosse dipeso da noi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero, la Samaritana al pozzo di Giacobbe, Matteo al banco delle imposte, Tommaso nel suo dubbio, Paolo sulla sua via di Damasco. E, invece, tutte le volte in cui diamo credito alla parola del Vangelo, già qui già ora Dio suscita figli di risurrezione.

Proprio la vicenda di quegli uomini appena richiamati attesta che il dopo di Zaccheo, della Samaritana e di tutti gli altri, è tutt’altra cosa rispetto al prima. E che cos’è quel loro “dopo”, se non una primizia di ciò che il Padre vorrebbe farci vivere in eterno? Perché scomodarli dalla loro postazione, se non per restituirgli la consapevolezza di essere fatti per ben altro?

Ammettere, infatti, che la nostra anima è immortale e che perciò ci attende una vita ultraterrena, significa vivere sub specie resurrectionis (alla luce della risurrezione, cioè) ogni aspetto della nostra umanità.

Che un rapporto finisca nel dimenticatoio non attesta una fede nella risurrezione;

che la freddezza faccia capolino in certe relazioni non attesta una fede nella risurrezione;

che un momento di tensione o incomprensione non sia vissuto come sprone a vincere noi stessi e a superarci, non attesta una fede nella risurrezione;

che io smetta di assumere la mia parte di responsabilità nel portare avanti un impegno o una scelta, non attesta una fede nella risurrezione.

Che noi possiamo risorgere, infatti, significa credere che Dio non cessa di trasformarci fino alla statura di uomo perfetto. Quando non ci ripieghiamo rassegnati a un certo modo di far andare le cose, vuol dire riconoscere che il suo amore è davvero in grado di realizzare ciò che, invece, a noi sembrerebbe impossibile.

“Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (1Gv).

Risorgiamo ogni volta quando permettiamo alla grazia di Cristo di essere la linfa dei nostri rapporti rompendo il gioco mortifero dell’a tanto tanto.

Tutto ciò che ci visita nella veste di un disagio o di un limite, di un dolore o di una malattia, di un abbandono o di un lutto, sta a noi scegliere di viverlo come il tramite mediante il quale venire trasfigurati di gloria in gloria o, invece, come il sepolcro dentro il quale rinchiuderci risentiti. In tal senso è vero che l’ostacolo è chiamato a divenire veicolo, la ferita feritoia. Sta a noi scegliere di vivere ogni occasione come un venir via dalla Vita o come una via alla Vita.

I nostri giorni non sono una perenne riedizione del passato. Ogni attimo è un istante nuovo con cui misurarci e in cui imparare a ripetere: eccomi, o Padre.

Se accettassimo di vivere la vita con l’intensità e la gioia del primo giorno e con la consapevolezza lieve dell’ultimo, come si essenzializzerebbe la vita! Avremmo il senso di ciò che passa e di ciò che permane, di ciò che vale e di ciò che non vale.

Vale soltanto quello che resta e resta soltanto quello che vale.