Contesto
In questa domenica Luca cede il posto a Giovanni, ma si tratta di una sostituzione apparente dal momento che questa perla, come viene da tutti definita, per stile e contenuto, sembra più lucana che giovannea.
Il contesto immediato è quello di un episodio incorniciato nel tempio, durante la festa delle Capanne (Gv 7,1-8,59). Il racconto si articola in tre scene, con vari personaggi: Gesù e la folla nel tempio (8,1-2), gli scribi e i farisei che accusano l’adultera davanti a Gesù (vv. 3-8), Gesù che perdona l’adultera (vv. 9b-11).
Per dovere di cronaca occorre ricordare che questo testo ha faticato non poco non solo nel trovare la sua collocazione nel vangelo ma addirittura nell’essere accettato come canonico. Per la tematica della misericordia sembrerebbe più un testo lucano che giovanneo. Alcuni papiri antichi, infatti, lo attribuiscono a Luca, altri addirittura lo omettono. Il motivo può essere ravvisato nella problematicità di una misericordia senza condizioni di cui Gesù fa dono alla donna sorpresa in flagrante adulterio.
È senz’altro tra le pagine più belle sulla misericordia, tuttavia, è tra le pagine più eloquenti sul modo in cui Gesù è riuscito a tenere insieme lo sguardo sulla donna e l’attenzione alla legge. Proprio il suo atteggiamento risponde alla domanda su come tenere insieme l’uomo e la Parola di Dio.
Testo
La scena che viene descritta è tutta un incrocio di sguardi: tutti vedono ma ciascuno in modo diverso. Ha ragione chi sostiene che “il Vangelo, se letto nella sua verità, diventa un’educazione a ‘vedere’”. Nel vangelo torna spesso il tema del vedere: tante volte Gesù vede mentre i suoi interlocutori non vedono affatto. Ma il più delle volte Gesù vede “altro” rispetto ai suoi interlocutori. Un esempio è proprio il nostro caso.
L’accusa
All’inizio troviamo Gesù che all’alba si reca nel tempio e si siede ad ammaestrare tutto il popolo. Gli scribi e i farisei mettono sotto processo un’adultera colta in flagrante e chiedono la sentenza di Gesù. È chiaramente esplicitato che si tratta di una trappola (v.6). In realtà il vero imputato è Gesù e il suo comportamento perché egli accoglie i peccatori. Essi hanno paura di colui che parla come un nuovo Mosè e che in qualche modo li ha spodestati. Facendo leva su quanto Mosè aveva prescritto, essi hanno già pronunciato la loro sentenza: morte per lapidazione (Es 20,14; Lv 20,10).
Dal loro discorso è assente Dio come è assente ai loro occhi la persona che accusano: guardano al suo peccato (“donna in flagrante adulterio”), per annullarla con un verdetto irrevocabile (“lapidare donne come questa”). C’è anche un altro assente: il partner maschile e colpevole, come invece prevedeva la legge. Quello che è strano è che la loro legge non prevede possibilità di cambiamento, non concede svolte perché il colpevole possa ricominciare.
Scribi e farisei che si appellano alla Legge, non fanno che usare violenza: contro la donna, trattata come un caso e un oggetto (messa là in mezzo); contro la Legge, usata per operare il male (trovare un capo di accusa contro Gesù); contro lo stesso Gesù, alla cui scuola non intendono mettersi e che vorrebbero, invece, eliminare del tutto.
Dicevamo come questo brano riporti diversi modi di guardare la stessa situazione. Ecco il primo modo, confortato addirittura con brani mutuati dalla Scrittura. Scribi e farisei intendono salvaguardare la Legge fermandosi allo “sta scritto”, alla lettera e lo fanno con modi che in realtà la offendono. Siamo davvero sicuri che basti ripetere un versetto o un brano evangelico per essere certi di averne salvaguardato il messaggio?
Difendiamo ancora la verità quando i toni sono sbagliati e le intenzioni non sono rette?
Scribi e farisei guardano la donna, la Legge e Gesù ma in che modo?
La donna “sorpresa” non è vista come un essere umano colto nella sua dimensione di fragilità di cui tutti facciamo esperienza ma come un caso al quale applicare una norma già scritta.
La Legge non è più la memoria del cuore pulsante di Dio ma una serie di direttive da cui estrarre sentenze da applicare caso per caso.
Gesù non è accettato come maestro che rivela il vero volto di Dio ma come un nemico da far fuori.
La reazione di Gesù
Gesù avrebbe potuto reagire in diversi modi giuridicamente inoppugnabili. Anzitutto rivendicando che né lui né il sinedrio avrebbero avuto alcun potere circa la condanna a morte. Di lì a poco, proprio davanti a Pilato, il quale deciderà: “prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge”, i capi dovranno riconoscere: “a noi non è consentito mettere a morte nessuno” (Gv 18,31).
La Legge, inoltre, stabiliva di lapidare non la donna come essi vorrebbero, ma “L’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10), l’uomo prima della donna. Se è vero come essi stesso riconoscono che quella donna era stata sorpresa in flagrante adulterio, dov’era finito l’uomo?
Pur potendo perseguire questa strada, Gesù non lo fa. Per lui la questione non è quella di trovare interpretazioni legittime. Per lui, in gioco, c’è anzitutto il modo di guardare: egli vede quella donna in modo diverso da come la vedono gli accusatori.
La risposta di Gesù è sconcertante e non poco enigmatica. Per marcare la distanza dagli oppositori, Gesù usa tre gesti: tace, si piega e comincia a “scrivere con il dito per terra”.
Si tratta di gesti tanto eloquenti: proprio i movimenti del suo corpo stanno traducendo un altro modo di stare di fronte a quella donna.
Quando gli accusatori gli avevano portato la donna, Gesù era seduto nell’atto di insegnare. Ma il seggio non indica solo la cattedra, esso è anche il luogo da cui si esprime il giudizio. Se Gv dice che Gesù si piegò a terra, vuol dire che nel frattempo si era alzato perché quella posizione che aveva assunto stava diventando quella del giudice. A scanso di equivoco, abbandona quella posizione e, mentre tutti sono in piedi, egli si pone nel punto più basso. Certo, un simile gesto può essere letto come simbolo dell’umiliazione assunta dal Figlio di Dio nell’Incarnazione. Tuttavia, molto più probabilmente, Gesù sta dicendo che è possibile prendere la parola solo quando si è disposti a piegarsi, a discendere. Finché l’altro non lo guardi dal basso verso l’alto riconoscendone tutta la dignità, non hai diritto di parola. Non a caso egli ripete quel gesto due volte, quasi sperando che i suoi interlocutori comprendano. Si tratta proprio di un cambio di prospettiva, altrimenti passerai la vita intera alla ricerca dell’interpretazione più intelligente per vincere una disputa.
Se questo gesto esprimeva il suo modo di porsi di fronte alla donna, il gesto dello scrivere esprime il modo di porsi di fronte alla Legge. Gesù non rinnega lo “sta scritto” della Legge tant’è che anch’egli scrive “con il dito”. Sul Sinai dio stesso aveva scritto la Legge sulle tavole con il suo dito. A motivo della ribellione del popolo, quelle tavole furono scritte per due volte, proprio come per due volte Gesù continua a scrivere. Ora, però, la Legge non è più scritta sulla pietra dura ma sulla terra, la stessa da cui è stato plasmato l’uomo. Geremia aveva già annunciato un tempo in cui la Legge sarebbe stata scritta nel cuore (Ger 31,33). La Legge non è scritta sopra l’uomo quasi a schiacciarlo: è scritta ai suoi piedi, per servirlo: la Legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge. La legge, sì, ma vista da quale prospettiva?
Gesù non è venuto a dare nuove leggi ma un nuovo modo di mettere in relazione l’uomo e la Legge. Si tratta di due elementi da guardare e da far entrare in dialogo attraverso il discernimento. Ora, il discernimento va fatto in ginocchio, come attesta la posizione di Gesù. Si discerne solo dal basso. È autorizzato a discernere solo chi è capace di piegarsi in basso e misurare l’abisso.
Dopo il primo piegarsi, Gesù sperava che i suoi interlocutori capissero e lo seguissero nel mutare prospettiva. Questa prima provocazione non aveva ottenuto alcun esito. Gesù aspetta e tace. Poiché quelli insistono, Gesù imbocca un’altra strada che sicuramente egli avrebbe voluto risparmiare a scribi e farisei che restano comunque amati da lui.
Di quale via si tratta? Di quella che chiama in causa il personale peccato degli accusatori. Dal momento che non sono stati in grado di entrare nel dramma di quella donna, loro simile, saranno capaci di entrare nel dramma del proprio peccato?
“Chi di voi è senza peccato” (v. 7): talvolta, per aprire gli occhi è necessario guardare tutta la forza travolgente del male dentro di noi.
Attenzione, però. Gesù tiene questa strada come extrema ratio. Sa, infatti, quanto sarà dolorosa e umiliante, soprattutto per i più anziani che, con la coda fra le gambe, tornano sui loro passi. Si tratta di una estrema delicatezza da parte di Gesù il quale ricorre a questo elemento solo perché essi non si danno per vinti e perciò insitono.
Lo scrivere di Gesù
Tantissime le interpretazioni di questo scrivere: il verbo greco può significare scrivere, disegnare, ma anche mettere per iscritto un’accusa. L’ipotesi più plausibile sembra quella che si rifà a Ger 17,13: “Speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti sulla polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva”. Colui che tempo prima, sempre ad un’altra adultera (Gv 4) e durante la festa (7,37-38), si era presentato come “fonte di acqua viva”, non scrive più con il dito di Dio su tavole di pietra (Es 31,18) che nelle mani degli uomini sono solo pietre da scagliare contro qualcuno, ma nella polvere, come per annullare, per dimenticare. Si tratta di un gesto con cui Gesù rivendica la sua autorità di giudizio, che non è di condanna, ma di perdono.
Gesù e la donna
Alla fine, gli accusatori abbandonano il tribunale improvvisato all’aperto: hanno deciso di abbassarsi, finalmente.
La donna, nel frattempo, è rimasta dove l’avevano collocata gli accusatori. Gesù resta solo con la donna: “restano soli miseria e misericordia”, dirà Agostino.
Finalmente un incontro vero, dopo quello fatto di macchinazioni per distruggere.
È al centro ma non per essere accusata. È lì per essere riconosciuta nella sua dignità. A differenza degli altri Gesù le parla e la fa parlare come persona: si tratta di un gesto impensabile e che abbatte spesse barriere (Gv 4,27).
Appare subito il Gesù che non fa indagini, non rimprovera, non invita a scusarsi.
Gesù fa una domanda retorica: “Dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Gesù sa bene cosa è accaduto ma vuole che sia la donna a pronunciare la propria sentenza. Non è più un oggetto, neppure della misericordia. Ella è soggetto. Certo, ha peccato e il suo peccato era evidente, ma poiché resta un essere umano, è lei a dover parlare di sé. Lei deve dire a se stessa la parola della liberazione che risulta essere un vero e proprio grido di vittoria: “Nessuno, Signore” (v. 11). In questo modo prenderà coscienza della salvezza che opera in lei.
Davanti a lei, in realtà, c’è uno senza peccato, il solo che potrebbe scagliare la pietra eppure non lo fa: Gesù.
Cosa farà Gesù a questo punto? L’interrogativo è presto sciolto: “Neanch’io ti condanno!”. Le parti sono rovesciate: chi vorrebbe giudicare non può farlo, chi potrebbe non vuole farlo. Ben a ragione, proprio dopo il nostro brano, Gesù dirà rivolgendosi ai capi: “Voi giudicate secondo la carne: io non giudico nessuno” (Gv 8,15).
Il testo resta aperto, Gesù non impone nulla. Il viatico per quella donna saranno i suoi gesti: lo sguardo dal basso e la parola scritta ai suoi piedi. La sua conversione avrà avuto come punto di riferimento proprio quei due gesti.
Davvero “la gloria di Dio è l’uomo vivente”, come ripeterà sant’Ireneo di Lione. Dio è glorificato quando l’uomo è restituito alla vita.
Da parte sua un’unica richiesta: “non tornare a peccare” dopo aver incontrato lui (cfr. Gv 5,14). Gesù non entra nei dettagli ma giunge direttamente al cuore delle scelte fondamentali della persona. Per gli scribi e i farisei il peccato consiste nell’andare contro una norma; per Gesù è andare contro la vita, contro la libertà e la dignità che questa donna ha ritrovato in lui, è mancare il bersaglio, è fallire. L’incontro con Gesù è stata una nuova creazione, perché ha restituito la donna a se stessa, aprendole un orizzonte che era di morte e di maledizione. Un orizzonte che è dono (“va’”) ed impegno (“non peccare”), per non ricadere in una condizione peggiore di prima (Lc 11,25; 2Pt 3,22).
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Dal Vangelo secondo Giovanni 8,1-11
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».