Contesto

Questa parabola ha subìto il torto di vedersi affibbiare un titolo sbagliato. Solitamente viene definita come la parabola del figlio prodigo (sperperatore), mentre al centro si staglia la figura del Padre: potremmo, perciò, a buon diritto definirla come la parabola del Padre misericordioso.

Se facciamo attenzione, ci accorgiamo che il personaggio-chiave è il figlio maggiore. Infatti, la scena è provocata dal fatto che “[1]Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. [2]I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». [3]Allora egli disse loro questa parabola”.

Questo comportamento di Gesù è considerato scandaloso dai suoi avversari che si ritenevano giusti e che appunto per questo praticavano le massime di certi rabbini secondo cui “l’uomo non si unisca con gli empi”, oppure, “l’uomo non si unisca con un empio, neppure per introdurlo allo studio della legge”. Alcuni rabbini discutevano perfino se la casa ebraica in cui era entrato un pubblicano fosse da considerarsi contaminata. Perciò, all’atteggiamento di Gesù reagiscono con la mormorazione, che richiama le mormorazioni di Israele nel deserto contro Mosè e contro Dio. Inoltre, Gesù non solo riceve i peccatori, ma addirittura arriva anche a “mangiare con loro”, un contatto quindi ancora più intimo, poiché assume i loro cibi contaminati (Lc ha già narrato che Gesù mangiava con i peccatori: cfr. 5,27-32; 7,29-35). Queste mormorazioni erano arrivate in qualche modo all’orecchio di Gesù. Ed ecco allora l’occasione della parabola. Come diversi sono gli uomini e le situazioni che vivono, così diversi sono gli atteggiamenti di Gesù nell’andare loro incontro: si comporta proprio come il padre della parabola che tratta i figli secondo le esigenze di ciascuno.

Ora, noi siamo abituati a leggere il cap. 15 come quello delle tre parabole della misericordia; così facendo dimentichiamo che il testo parla di un’unica parabola (v. 3) con tre paragoni: i primi due sono quelli della pecora perduta nel deserto (vv. 4-7) e della moneta perduta dentro casa (8-10), che anticipano il terzo paragone dei due figli, il più giovane perduto in un paese lontano (v. 13), il maggiore che pur restando in casa, rifiuta di entrarvi (vv. 25-28). Lo schema dei tre racconti è lo stesso: perdita, ricerca-attesa, ritrovamento, festa. Il padre è al tempo stesso il pastore che esce per abbracciare, e la donna che resta dentro casa per ritrovare; ma il terzo racconto resta aperto perché, a differenza dei primi due, non sappiamo se il maggiore rientrerà dentro casa. Il destinatario della parabola è proprio lui, o quegli ascoltatori/lettori che rifiutano di far proprio lo stile di Dio.

Luca – volutamente – non riporta la reazione del fratello maggiore. Lascia la risposta aperta: anzitutto per lui, ma soprattutto per i farisei e scribi presenti e per chiunque nella chiesa si trova di fronte ad un fratello traviato che ritorna in comunità.

Nel v. 32 si può riscontrare la chiave di lettura di tutto il brano, anzi del capitolo intero: “bisognava”, era necessario.

Questo verbo è il verbo che accompagna sempre le decisioni di Gesù quando egli si sottopone alla volontà del Padre. E’ necessario che il Figlio dell’uomo salga a Gerusalemme e sia consegnato ai sommi sacerdoti e agli anziani perché sia crocifisso, sia messo a morte e il terzo giorno risorga.

Nel nostro brano la volontà del Padre è che si faccia festa, per il figlio morto e risuscitato, perduto e ritrovato.

Testo

Il figlio minore (15,11-24)

La scena si apre con “un uomo aveva due figli”. Il minore chiede al padre la parte del patrimonio che gli spetta, perché ha scelto di interrompere i suoi rapporti con la famiglia. La spartizione dell’eredità era in uso, anche se non obbligatoria; doveva però aver dato luogo, come qui, a non infrequenti abusi, dal momento che Sir 30,20-24 aveva ammonito il padre a non praticarla. Nel nostro caso si tratta di un gesto di rottura, un gesto di cui lui stesso si assume la responsabilità. Mentre nelle due precedenti parabole della misericordia ci si poteva riferire ad una casualità che la pecora si fosse smarrita come pure che si fosse persa una dracma, qui siamo di fronte ad una persona che liberamente e responsabilmente sceglie di vivere prescindendo dai legami con la casa paterna. Siamo di fronte a ciò che noi definiremmo come peccato, voluto, coscientemente compiuto. Nel suo “dammi”, c’è la visione di un Padre antagonista, che coarta la sua libertà. Prendendo la sua eredità, il giovane agisce come se il Padre fosse morto. Di fronte a questa richiesta il Padre non reagisce: il suo non reagire non è l’espressione che non ama il figlio, ma che ne rispetta la libertà. E’ la debolezza di un amore che si espone anche alla possibilità del rifiuto. Il padre non dice una parola. Il suo è il silenzio dell’amore, rispettoso della libertà del figlio. Accetta il rischio di questa libertà, anche perché senza libertà non c’è amore. Giustamente qualcuno ha definito l’uomo come il rischio di Dio. Il padre è addolorato per la richiesta ma non è adirato, non può sostituirsi alla scelta del figlio.

Verrebbe spontaneo domandarsi: perché non l’ha trattenuto, non glielo ha impedito? Perché la vera paternità è discrezione, è accettare il rischio della libertà… Paternità non è paternalismo che con l’intento di proteggere, finisce per soffocare la crescita dell’individuo bloccandolo ad uno stadio infantile. Il vero amore accetta anche i sentieri impervi del disprezzo e dell’isolamento, continuando tuttavia a sperare.

“Nel contesto del Vangelo, Dio non appare come il padre che spranga la porta perché i figli non escano di notte, ma la luce illuminante, la misteriosa bussola che orienta l’uomo nelle sue scelte, che non lo abbandona nell’esercizio rischioso della libertà, e che crea nuove prospettive di liberazione… Il padre può aiutare solo essendo un modello…” (Arturo Paoli).

L’allontanarsi del figlio è un voler gestire da solo la sua esistenza. E allora, in seguito alla decisione di lasciare casa bisogna scegliere dove andare. Il figlio minore va nella regione più lontana possibile, per non avere più nulla a che vedere con quelli di casa sua. Si tratta di una partenza che avviene all’insegna delle più lusinghiere prospettive, perché il figlio minore possiede quegli elementi che in tutti i tempi sono considerati come gli ingredienti indispensabili per la felicità: giovinezza, ricchezza e libertà. Si allontana con la presunta sicurezza di possedere la chiave che apre tutte le porte della felicità.

Non apprezza più il “bene” di stare col padre, vuole i “beni” da consumare, dissipare, sperperare. La casa paterna è per lui un luogo di costrizione perciò sente il bisogno di liberarsene, di vivere le sue esperienze.

Ma quella che apparentemente è una scelta di vita si rivela una scelta di morte; lo sottolinea, con una certa ironia, l’avverbio “dissolutamente” che in greco significa anche “senza salvezza”. Infatti, dilapida non solo l’eredità, ma ciò che è, fino a restare nessuno. A tutto ciò si aggiunge l’imprevisto della carestia. Le persone sagge e avvedute in qualche modo si premuniscono per affrontare l’imprevisto, le persone insipienti vivono all’insegna della spensieratezza, come se la vita dovesse sempre obbedire alla logica bizzarra dei loro sogni. Tenta di risolvere da solo il suo bisogno, ma scopre la fame e l’infamia estrema: infatti, i porci appartengono al mondo del demoniaco, dell’impurità e pascolarli era un mestiere degradante per un ebreo.

Quand’è che il prodigo intraprende la strada del ritorno? Dopo essere rientrato in se stesso: si tratta di un verbo che denota la scomposizione, quasi una forma di schizofrenia del giovane: si credeva libero e invece si riconosce solo uno che aveva inseguito una chimera. Si rende conto che tra le mani stringe non la libertà ma avare carrube, per le quali tra l’altro deve entrare in competizione con i porci. Prende atto del rischio che sta correndo: Io qui muoio di fame. Diventa cosciente che quella strada non approda ad alcun luogo, che quanto più si allontana tanto più diventa schiavo, che la delusione aumenta fino a raggiungere la disperazione, che l’acqua in grado di soddisfare la sua sete non la può certo trovare in quel paese lontano.

Per ricomporre la dissociazione lascia riemergere il mondo sommerso della casa, del padre, dell’abbondanza. E’ necessario un atto di sincerità, una presa di coscienza, un chiamare per nome la situazione: “Ho peccato!” vale a dire, mi sono illuso, ho mancato il bersaglio, ho fallito, ho sbagliato strada. Per il momento si tratta di un pentimento interessato, dettato appunto dalla fame: egli, infatti accetta di ritornare, dettando lui le condizioni del pentimento, ma ancora in una logica che è insieme di orgoglio e di schiavitù (“trattami come uno dei tuoi garzoni”, v. 19). La conversione è più fisica che psicologica o spirituale: ritornare da suo padre e, perché già diseredato, chiedergli lo statuto non più di figlio ma di salariato.

Mi alzerò… Non importa la distanza percorsa. Ha toccato il fondo. La conversione per lui prima ancora che inversione di marcia, è voglia di risalire, di venir fuori da quell’abisso in cui si è cacciato.

Verso dove si indirizza? Non verso casa, ma verso suo padre, fino ad allora considerato come nemico della sua libertà, come colui che gli impediva di realizzarsi. Dopo l’esperienza delle carrube intuisce che solo il padre può garantirgli ciò che di più vero lui desidera, che può essere se stesso solo nella misura in cui è in comunione con il padre.

Ancora in cammino, il Padre anticipa il figlio. Se ha avuto modo di intravederlo “quando era ancora lontano” è perché stava in attesa (Is 30,18: “Eppure il Signore aspetta per farvi grazia, per questo sorge per aver pietà di voi…”), segno che l’amore non si arrende mai. Senza un minimo rimprovero o vendetta per il passato, i gesti del Padre sono solo tenerezza viscerale (“ebbe compassione”: il verbo greco dice riferimento alle viscere di misericordia e indica una commozione che interessa tutta la persona, quasi uno sconvolgimento interiore; è l’espressione della tenerezza materna e ciò spiega perché nella parabola manchi la figura femminile: il padre è al contempo madre; si tratta di un termine che ricorre qui e in altri due contesti: in Lc 7,33 quando Gesù si commuove davanti al defunto figlio unico della vedova di Nain e  in Lc 10,33 quando il buon samaritano ha compassione dello sventurato caduto in mano ai briganti);  l’abbraccio e i baci continui sono segni di perdono e di riconciliazione (cfr. 2Sam 14,33), nonché del fatto che il Padre tratta il figlio da eguale e non da schiavo. Da notare che il Padre non permette al figlio di terminare il suo discorso elaborato da schiavo. Non gli fa un processo sulla condotta sbagliata o sulle sue attuali intenzioni, soprattutto non indaga se è pentito o no, il calore e la festa di famiglia aiuteranno. Il Padre è oltre un modello di giustizia retributiva e per questo reintegra chi non ha diritti o meriti (“non sono degno”) nella famiglia, donandogli una dignità superiore a quella di prima (vestito, anello e calzari sono segni di identità e dei diritti che una persona ha) e fa imbandire un vitello grasso, come si era soliti fare per festeggiare durante le grandi occasioni. E il Padre spiega il motivo della festa: perché quella del figlio non era stata una sbandata, ma una vera morte, come figlio e come uomo: “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. La vera conversione del figlio sta in questo lasciarsi amare. Nel Padre si sprigiona la gioia per il figlio “cresciuto” e la festa che segue valorizza la nuova maturità raggiunta, il nuovo rapporto tra padre e figlio. Pascal commenterebbe: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere”.

Il figlio maggiore (15,25-32)

La nota stonata in questa festa è il figlio maggiore, il quale si sente defraudato, si arrabbia e non vuole entrare nella logica del Padre, che è di fraternità (Lc 11,2): invece di dire “mio fratello”, dice “tuo figlio” ed è da lui che veniamo a conoscere le malefatte del fratello (“ha divorato i tuoi averi con le prostitute”).

Come è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi una festa? E più ancora, che per lui sia stato ammazzato il vitello? Bisogna sapere che le famiglie ricche ingrassavano un grosso animale da uccidere poi in una grande occasione, spesso per le nozze del primogenito. Non solo non capisce il motivo di quella festa, ma addirittura si sente defraudato di un suo diritto e posposto al minore.

La sua ira (“egli si arrabbiò”) contrasta con la commozione del padre. Ira, sdegno, dissociazione vengono ad abbattersi sulla festa che voleva essere momento di comunione. Egli è chiuso come il fariseo di Lc 18,11 nella sua perfezione fiscale e perciò innalza steccati, suscita la divisione, protesta contro l’amore senza misura del Padre che vorrebbe secondo le sue misure (cfr. Mt 20,12). Mette sotto accusa suo Padre, smentendo così il suo stesso essere figlio. Dalle sue parole ci si accorge che pur stando nella casa, in realtà ne è sempre stato lontano. Non si è mai accorto dell’amore e della vera eredità che è il Padre stesso (“tu sei sempre con me e ciò che è mio è tuo”), ma lo ha subìto come padrone, come un datore di lavoro, e ha vissuto il suo rapporto con lui come uno schiavo (“ti servo da tanti anni”, v. 29) e non come dono. E’ invidioso della paradossale misericordia del Padre verso suo fratello e respinge la festa che è anche per lui.

Il protagonista è ancora una volta il padre che esce per pregarlo ad entrare. E’ sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per raccorciare le distanze. Il fratello maggiore solleva l’obiezione che gli impedisce di entrare: il padre fa festa per questo suo figlio (15,30) che ha divorato tutto. Si lamenta per non essere mai stato festeggiato per la sua continua fedeltà. Nella sua dura accusa al padre, dimentica un fatto importante: il padre, nel dividere il patrimonio, ha dato anche a lui la parte che gli spettava, perché si è detto che “il padre divise tra loro le sostanze” (v. 12). La fruizione anticipata del patrimonio paterno non viene considerata: si lamenta del capretto non avuto, dimenticando di essere in possesso del patrimonio che il padre gli ha lasciato prima del tempo. Tutto questo, nel momento delle recriminazioni, è tralasciato e inspiegabilmente dimenticato. Il padre riconosce le ragioni del maggiore: quanto egli afferma non è né falso né esagerato. Il padre lo ascolta e poi gli rivolge la parola chiamandolo “figlio”, ricordandogli così quella relazione di comunione che il maggiore ha sempre vissuta, forse senza capirla pienamente, sicuramente senza apprezzarla, se ora, in un momento di tanta gioia per il padre, egli si estranea. Mai usa l’appellativo di padre. Il padre giustifica il motivo della festa: gli ricorda anzitutto che il ritornato è suo fratello (15,32).

Avviene un capovolgimento di ruoli: il minore, pentito, entra e partecipa al banchetto; il maggiore negando al Padre e a se stesso il dono di perdonare, si autoesclude. Potrà ritrovare il Padre solo accettando il “peso” del fratello (Gal 6,2; Col 3,13).

Il racconto qui si interrompe e resta aperto. Luca infatti non riporta la reazione del fratello maggiore di fronte all’ammonizione del padre. Lascia la risposta aperta: anzitutto per lui, ma soprattutto per i farisei e scribi presenti (15,1-2) e per chiunque nella chiesa si trova di fronte ad un fratello che dopo aver sbagliato ritorna in comunità.

Meditatio

“Noi preti ministri della misericordia… Siamo coloro che per la gente rappresentano l’iniziativa divina; un’iniziativa che chiama male il male, che non nasconde il male, però è tesa sempre a valorizzare i minimi passi di buona volontà, invitando chiaramente a non fermarsi al minimo, a compiere almeno il passo successivo… Dobbiamo continuare nel mondo l’azione di Gesù che cercava i pubblicani e i peccatori, che è stato mandato per loro, per salvare chi era perduto… Che cosa significa per me essere ministro della misericordia? Come lo sono? Io sono della vera misericordia di Dio, oppure di una dabbenaggine, di un buonismo?… Qual è la mia immagine personale di Dio? Come tutti gli uomini, noi nasciamo nel peccato originale e siamo trascinati da una cultura che, nel suo fondo, è sempre rimasta un po’ pagana: la cultura della paura di Dio. Non nasciamo con lo spirito evangelico del primato della misericordia…. Spesso ci accusiamo implacabilmente, magari nel segreto, là dove invece il Signore ci invita a perdonarci come lui ci ha perdonato”.

(da Il Padre di tutti. Lettere, discorsi e interventi 1998, di C.M. MARTINI, EDB CA, p. 512-513)

Dobbiamo riconoscere che non ci è proprio così facile e spontaneo essere gli uomini della misericordia. Come mai tutto ciò?

Credo che il primo motivo stia nel fatto che non può essere strumento di perdono chi non ha coscienza di averlo ricevuto: la capacità di perdonare è direttamente proporzionale  all’esperienza di essere perdonati.

Noi quest’oggi siamo raggiunti e toccati dalla misericordia di Dio dalla quale siamo stati creati. La misericordia non è altro se non l’amore che va oltre la giustizia. Ora già il nostro venire al mondo è frutto di un amore in eccesso e non certo di un atto di giustizia. All’origine, dunque, la misericordia! Siamo come impastati di misericordia: è come se il perdono (nel senso latino del termine di un dono al superlativo) avesse addirittura preceduto il nostro errore e il nostro pentimento. Se le cose stanno così comprendiamo subito che il perdono non può essere più una realtà occasionale, di cui aver bisogno di tanto in tanto magari in seguito ad una nostra trasgressione. Il perdono è per noi qualcosa di costitutivo. Noi siamo esseri perdonati: se Dio non fosse misericordia noi non saremmo mai venuti alla luce. Ogni giorno che passa è dono di questa misericordia. Viviamo immersi nella misericordia e non ne abbiamo alcuna consapevolezza!

Noi abbiamo ricevuto molto di più di quanto meritassimo e di quanto siamo in grado di dare. Perdonandoci Dio crea in noi un cuore nuovo, fatto su misura del suo, capace di perdonare come perdona lui. Il suo è un amore che va al di là di ogni nostro merito.

Ricevendo il perdono di Dio, la prima riconciliazione, a livello psicologico, avviene con noi prima ancora che con Dio.

Quando chiediamo il perdono al Signore noi riconsegniamo la nostra vita alle sue mani perché la ri‑crei con la sua misericordia rendendola sempre più conforme a quella immagine che lui ha pensato per ciascuno di noi, perché ci sveli la bellezza di quell’immagine, ce la faccia sentire appartenente a noi, ci conceda di essere contenti del nome e del volto che ci ha dati, senza bisogno di sognarne degli altri e senza la pretesa di veder tutto e subito realizzato.

Il perdono che il Signore ci concede ci permette di riconciliarci con quello che siamo qui e ora, persone che cercano con fatica paziente ed umile di compiere il disegno del Padre e che tuttavia sperimentano continuamente quanto ne sono distanti. Tutti facciamo l’esperienza di non essere perfetti e neppure il perdono divino ci consente di coltivare una simile illusione: siamo solo dei pellegrini, non gente arrivata, uomini deboli, tutt’altro che impeccabili, persone che hanno sempre bisogno di essere perdonate.

Il fatto che veniamo assolti da Dio non ci concede una sorta di patente di infallibilità, solo ci dà la forza di riconoscere e accettare in noi la presenza di un male che forse non riusciremo mai ad estirpare radicalmente in quanto è una debolezza che ci portiamo dentro da sempre e che si manifesta in molti aspetti: risentimenti, nervosismi, depressioni, difficoltà di relazione. Probabilmente non siamo responsabili pienamente di tutto ciò, siamo però responsabili dell’atteggiamento che assumiamo di fronte a questa nostra debolezza. Siamo responsabili di come viviamo questa nostra povertà di fronte a Dio, da persone che sentono quotidianamente il bisogno del perdono che ci rinnovi o da presuntuosi che si ritengono migliori degli altri.

Quando chiediamo il perdono noi siamo consapevoli di averlo già ottenuto grazie al sangue di Cristo. Ecco perché in noi non c’è spazio per la paura, il dubbio, lo scrupolo, l’ossessione e tantomeno c’è posto per l’indifferenza. Dinanzi alla croce del Signore cogliamo il modo attraverso cui siamo stati amati. La croce è la misura dell’amore del Padre e del mio peccato.

Qual è il Dio con cui veniamo riconciliati?

E’ il Dio che quella croce rivela forse molto diverso da tanti nostri modi di concepirlo, frutto più delle nostre proiezioni psicologiche che non di quanto la Parola di Dio ci rivela di lui. Il Dio della croce è un Dio debole, che si lascia crocifiggere; un Dio umile e umiliato, che non fa valere i suoi diritti ma si consegna proprio nelle mani di coloro cui è stato fatto dei bene; un Dio ricco di compassione perché è il Dio che soffre con e per coloro che ama, che addirittura chiede perdono per i suoi uccisori.

Abbiamo bisogno di guardare la croce perché la nostra immagine di Dio venga purificata, i nostri idoli vengano distrutti. Il Dio dei nostri sogni se da una parte può affascinare la nostra fantasia e giustificare certi nostri atteggiamenti, dall’altra può trasformarsi in giudice severo, in padre‑padrone: e credo sia molto difficile riconciliarsi con un tale dio.

Il Dio della croce è il Dio che rimane a braccia aperte per accogliere chiunque riconosce il proprio peccato e crede alla sua misericordia.

Lasciamoci riconciliare da questo Dio!

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Dal Vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32
 
In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».