Scrivere del prete non è mai facile. Il rischio della retorica è dietro l’angolo qualunque sia il punto prospettico da cui si affronti l’argomento. E, tuttavia, l’elemento che si staglia evidente è il fatto che egli, essendo chiamato a dispensare i tesori della Grazia, più di altri non smetterà mai di essere un vaso di …

Scrivere del prete non è mai facile. Il rischio della retorica è dietro l’angolo qualunque sia il punto prospettico da cui si affronti l’argomento. E, tuttavia, l’elemento che si staglia evidente è il fatto che egli, essendo chiamato a dispensare i tesori della Grazia, più di altri non smetterà mai di essere un vaso di creta (cfr. 2Cor 4,7), per dirla con san Paolo. Non perché a contatto con il mistero santo di Dio, egli sarà senz’altro all’altezza del dono a lui partecipato: la cosa non va da sé. Anzi, la partecipazione alla comune esperienza di fragilità di ogni uomo, lo rende, sulla stregua dell’Unico Sommo Sacerdote Gesù Cristo, fratello capace di compassione per quanti subiscono la medesima prova. Proprio questo è ciò che maggiormente lascia trasparire quella che S. Francesco chiama “l’umiltà di Dio”: “Ecco, ogni giorno egli si umilia (Fil 2,8), come quando dalle sedi regali (Sap 18,15) scese nel grembo della Vergine; ogni giorno viene a noi in umili apparenze; ogni giorno discende dal seno del Padre (Gv 1,18; 6,38) sull’altare nelle mani del sacerdote” (Ammonizione I).

Non è un caso che la liturgia ponga sulle labbra del prete (e del diacono) che annuncia il Vangelo, queste parole che testimoniano il continuo bisogno che sia Dio stesso a renderlo idoneo a tale ministero: “Purifica, Signore, il mio cuore e le mie labbra, perché io possa degnamente annunciare il tuo vangelo”.

La Lettera agli Ebrei chiede ai cristiani di ricordarsi di chi ha annunciato loro la Parola di Dio (Eb 13,7) così da non perdere la memoria di quanti ci hanno permesso di abbeverarci alla sorgente della Vita con le loro capacità, i loro doni, l’assiduità del loro ministero come pure con la comune partecipazione alla stessa esperienza di fragilità umana.

Talvolta, un po’ sarcasticamente, qualcuno rimprovera a noi preti di fare una bella vita. In realtà, chi non si accontenta della facile retorica a riguardo, può attestare come quella del prete sia davvero una vita bella ma non certo una bella vita. E dove rifulgono i tratti di questa bellezza? Uno dei tratti è senz’altro la fecondità propria di chi gratuitamente ha fatto dono di sé a beneficio di altri provando a fare sue quelle virtù che Paolo ricorda al discepolo Timoteo: la fede, la carità, la pazienza, insieme a tante altre.

Quella del prete è una vita bella anzitutto perché animata dalla fede intesa non soltanto come la ripetizione di un rito o la semplice adesione a una dottrina. No, la fede intesa piuttosto come sequela di una persona, Gesù Cristo, a cui egli lega se stesso in modo appassionato e incondizionato. La fede del prete lo porta ad andare oltre quel narcisismo tanto adolescenziale di chi ricerca continuamente il proprio interesse o la propria riuscita e si dispiega, invece, in una continua consegna di sé in modo gratuito fino a gioire con chi gioisce e piangere con chi piange. In una tale prospettiva nulla è materiale di scarto ma persino i limiti, gli errori, i fallimenti, i peccati diventano materiale prezioso per essere plasmati continuamente dalle mani provvidenti del Signore per diventare segno e tramite per altri della misericordia usata a noi da Lui.

La fecondità della vita bella del prete ha la sua scaturigine nell’essere plasmata dalla carità, da quell’amore che se richiede una relazione esclusiva tanto da non amare qualcuno più del Signore, essa non è mai una relazione escludente: per questo nessuno è alle strette nel suo cuore. Il prete, proprio perché chiamato a vivere il suo ministero esercitando la carità pastorale, più di altri è chiamato ad amare Dio con tutto il cuore e gli altri con il cuore di Dio.

La vita bella del prete è rivelata dalla grande pazienza che caratterizza le sue giornate e il suo ministero. La pazienza ha nulla a che spartire con la rassegnazione passiva o con quell’atteggiamento supino di fronte a ciò che accade: essa, invece, ha molto a che fare con la costanza nella vita quotidiana, con la perseveranza nelle avversità e la fedeltà nell’ora della prova. Essa partecipa di quella larghezza del cuore di Dio che a tutti concede il tempo necessario e le occasioni opportune per far ritorno a Lui. È la pazienza di chi continuamente prepara il campo per la semina sebbene sappia che in esso, accanto al buon grano, possa crescere anche la zizzania. È la pazienza di chi non risparmia energie e sudore sebbene sappia che toccherà ad altri la gioia del raccolto.

Afferrata com’è dal buon Pastore, la vita del prete è una vita bella perché vive della consapevolezza di come sia più importante ciò che Cristo compie in lui di quello che egli compie per Cristo e per questo, anche di fronte al rifiuto, essa non cessa di elargire la gratuità del perdono continuando ad attestare come il Battista: “Lui deve crescere, io, invece, diminuire” (Gv 3,30).

 

O Gesù: fratello, amico, salvatore,

mi hai chiamato a seguirti alle prime luci dell’alba,

mi hai inviato a lavorare nella tua vigna,

dove c’erano mani tese e cuori feriti,

nascevano amori e morivano speranze.

Con Te ho consacrato, benedetto, perdonato,

ho piegato il cielo sul letto dei malati,

ho donato speranza a chi cercava futuro.

Se mi guardo indietro, è ancora un mistero

la tua chiamata e la mia risposta.

O Signore, dammi la pace che ho donato agli altri,

dammi il perdono che ho dato nel tuo nome,

resta con me, nella gioia e nel pianto.

All’Eterna e Divina Trinità ogni onore e gloria.

Alla Madre della Chiesa e a tutti i Santi nostri protettori,

lode e benedizione nei secoli dei secoli.

Amen.

Don Antonio Savone, Vicario episcopale

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Nato a Oliveto Citra il 20 agosto 1936 da Antonio e Immacolata, finita la scuola elementare, don Ugo Calabrese entra nel Seminario minore di Campagna. Da qui, dopo gli studi ginnasiali si trasferisce al Seminario di Salerno dove frequenta con profitto tanto il liceo classico quanto il propedeutico per accedere alla Facoltà di Teologia presso il Seminario di Posillipo a Napoli.

Ordinato prete a Oliveto il 1 luglio 1962, dapprima collaborò con il parroco di Oliveto assente per motivi di salute. Quindi fu inviato come parroco a Satriano di Lucania – che fino al 1972 appartenenza alla Diocesi di Campagna – e qui fece il suo ingresso il 30 novembre 1963. Qui, come egli stesso annotava, l’impatto con la comunità fu positivo, anzi ottimo. Satriano lo conquistò tanto da rimanerci per quarant’anni.

La sua azione pastorale puntò sui giovani e sulla cultura, divenendo egli stesso punto di riferimento per la comunità. Col senno di poi, lo si potrebbe paragonare a internet di quegli anni a Satriano, un vero e proprio motore di ricerca. A lui si ricorreva, infatti, per qualsiasi informazione o spiegazione.

Fa ripartire l’oratorio, rilancia l’AC specialmente la Giac (il settore giovani), iscrive la parrocchia all’ANSPI, aderisce all’associazione Migrantes (di cui sarà anche Delegato regionale) per non far mancare il suo sostegno ai tanti emigrati satrianesi come pure agli immigrati. La sua biblioteca è a disposizione di tutti: tiene lezioni di italiano, latino, greco e filosofia, nonché di inglese. Fa in modo che a tutti sia assicurata la formazione scolastica senza che le scarse condizioni economiche fossero un ostacolo per il conseguimento di un titolo di studio.

La casa canonica è una casa che accoglie tutti a qualsiasi ora esercitando il ministero dell’ascolto e del consiglio, magari indicando anche qualche lettura opportuna.

Il suo obiettivo è sempre stato quello di liberare la comunità da abitudini che non permettevano ai giovani di prendere il volo e per questo, fece in modo che non restassero vittime di una gestione reverenziale del potere. Ai giovani chiedeva di sporcarsi le mani in politica sempre a partire dai fondamenti della Dottrina sociale della Chiesa. Lottò contro il totem del “si è fatto sempre così” e del ripagare con la stessa moneta: “quello che mi hanno fatto gli devo fare”.

Nel 1977 si laurea in lettere e Filosofia a Napoli e nonostante gli impegni del ministero di parroco, dapprima insegna religione, poi Storia e Filosofia in alcune Scuole superiori della provincia di Salerno e di Potenza nonché nei Seminari maggiore e minore di Potenza come pure in diversi Istituti di Scienze Religiose. Una fede illuminata culturalmente, così amava definire la sua fede.

Un momento particolarmente significativo fu l’immediato post terremoto ’80 che vide don Ugo farsi promotore di un proficuo gemellaggio dapprima con una parrocchia di sassuolo e poi con la Diocesi di Trieste che si fece carico di ricostruire l’oratorio danneggiato dal sisma perché potesse ospitare iniziative parrocchiali e non.

Nel 2004 lascia definitivamente la parrocchia al suo successore, il compianto don Antonio Petrone che divenne, sebbene giovane prete, padre del suo stimato confratello a cui tanto pure si ispirava.

Fin quando la salute glielo ha consentito ha svolto il ministero di confessore al Santuario di Materdomini. Da qui, poi, il trasferimento a Potenza nella Casa R. Acerenza dove ha vissuto questi ultimi anni e dove, nel giorno di Ognissanti, è stato chiamato a celebrare la liturgia del cielo.