La cacciata dei mercanti dal tempio ci restituisce un volto di Gesù affatto tenero. Siamo poco avvezzi a questo gesto di Gesù che ha tutti i tratti della indignazione. Un comportamento, il suo, non dovuto a uno sbalzo di umore o alla perdita della pazienza, come può accadere a ciascuno di noi.
Dietro quel gesto infatti è in causa il rapporto con Dio ridotto a mercato. Dio è diventato una realtà in vendita, concesso alle mani del miglior offerente. Dio lo si può comprare, a proprio piacimento. Come è ovvio, in una religione-mercato chi non dispone di un serio budget non potrà mai accaparrarsi il favore di Dio.
Vivere il rapporto con Dio in questi termini significa non essere stati capaci di comprendere il segno che è Gesù, un segno povero, certo, ma quanto mai eloquente. È il segno di un Dio che offre alleanza, che ristabilisce comunione. Tutto questo nell’ordine della pura gratuità, del dono.
Di qui a poco, nel dialogo tra Gesù e il maestro Nicodemo, Gesù rivelerà che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio unigenito”: sono queste parole, mi pare, la chiave di lettura e di comprensione di quanto ci viene annunciato dalla liturgia della Parola.
Siamo messi di fronte al grande sogno di Dio: quello di ristabilire una comunione infranta, un’alleanza lacerata. E Dio lo fa attraverso l’unico verbo che egli sa coniugare, quello del dono. “Ha tanto amato il mondo da dare…”. Al linguaggio di Dio non appartengono parole come vendere e comprare, ma una parola ben diversa: donare.
La nostra esperienza personale ci attesta continuamente quanto sia impari stare di fronte ad uno che dona e che chiede soltanto che questo dono venga accolto, non anzitutto ricambiato. Tanto ci sta stretta questa esperienza che tutta la vicenda umana non ha fatto altro che escogitare continuamente i modi per pareggiare i conti. Ed ecco allora che la casa del Padre, segno per eccellenza della gratuità di Dio, dove tu non sei accolto per le tue capacità, i tuoi meriti, le tue benemerenze, ma perché sei amato, è ridotta ad uno scambio di cose. Hai fatto questi gesti, hai detto queste parole, hai dato questa offerta, hai adempiuto il precetto, poco importa se tutto ciò era senz’anima, hai assolto il tuo debito con Dio, hai comprato Dio; ma, ahimè, hai ridotto la fede a mercato. Scaturisce la sicurezza che dando qualcosa si ha qualcosa d’altro.
Quel Dio desideroso di comunione, di alleanza, di essere il Dio con noi, diventa una presenza da ricercare all’occorrenza. Perciò può starsene rinchiuso in un luogo in cui so di poterlo incontrare. Il tempio è una struttura perenne nella storia di ogni popolo che permette di dividere lo spazio ma anche la società in due parti: quello sacro e quello profano. Quello sacro, ovviamente, in ragione del suo essere destinato al rapporto con Dio vale più di ogni altro. Ma Gesù viene a sostituire il tempio con il suo corpo. Al tempio sostituisce l’uomo. Ecco la novità, ecco qual è il luogo di Dio. Non c’è uno spazio sacro accanto a quello profano.
Del resto questa è la sua intenzione da sempre. Quando David rivela al profeta Natan il suo progetto di costruire un tempio al Signore, questi gli fa sapere che non è d’accordo: “Tu costruire un tempio a me?… no, sarò io a costruirti una casa: renderò stabile la discendenza che uscirà da te”. A Davide che pensava di costruire un tempio di pietre al Signore, Dio rivela che egli sta scegliendo una casa di carne.
Per questo Gesù si indigna, non anzitutto perché abbia di mira un luogo fisico ma una mentalità; quella di voler fissare Dio e le cose di Dio ad un prezzo, quello stabilito dai gestori del tempio.
L’uomo è convinto che la relazione con Dio sia favorita dal culto in un determinato santuario. Gesù dichiara finita l’epoca dei santuari: “credimi, donna, è giunta l’ora in cui non sia dorerà il Padre né su questo monte né a Gerusalemme”. Se il dio della religione necessita di un tempio e di un culto, il Padre, per essere tale, ha bisogno di figli che gli assomiglino. L’assomigliare al suo amore è l’unico culto che il Padre richiede.
L’essere condotti al tempio, quest’oggi, è per essere messi a parte di una inedita rivelazione: non esiste un luogo o un tempo che possa trattenere e circoscrivere la sua presenza. Il tempio nel quale ci raduniamo per la preghiera sta a ricordare soltanto questa permanente volontà da parte di Dio di abitare in mezzo a noi. È un segno, appunto, e come tale rimanda e indica una realtà altra da cui non distogliere mai lo sguardo: la nostra carne. Così ha scelto di porre la sua tenda fra le nostre case. Ha assunto la nostra condizione di uomini e la nostra carne è diventata il suo tempio.

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Dal Vangelo secondo Giovanni 2,13-22
 
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.