Caro Mario,

siamo in tanti oggi a prendere congedo da te.

Siamo qui, ciascuno per la sua parte, con il proprio carico di dolore (Anna con quello di chi ti è stata accanto per una vita, Francesco con il carico proprio di un figlio che improvvisamente è chiamato a diventare adulto, mamma con quello di chi non dovrebbe mai sopravvivere alla morte di suo figlio, noi con il nostro di fratelli e di sorella, Maddalena con quello di suocera che ti ha accolto come figlio, quello dei cognati, delle cognate, dei nipoti, dei parenti, degli amici) e, perché no?, persino con la nostra rabbia, le tante domande che accompagnano una morte come la tua, i tanti silenzi e le risposte che vorremmo e non avremo mai. Siamo qui anche con i tanti ricordi, le tante testimonianze dei momenti di gioia condivisi, della tua pacatezza, della tua serietà professionale, del poter contare su di te quando occorreva, della tua amabilità, della tua giocosità discreta.

Quanti i miei ricordi! La foto scattata il giorno del matrimonio di Rosetta coglie tutta la nostra complicità infantile ed esprime cosa eravamo l’uno per l’altro: io con la mano sulla tua spalla e tu sulla mia gamba, un equilibrio precario, come può esserlo quello di due bambini, ma per noi era un equilibrio sicuro. Eravamo un “duo” formidabile.

Hai scelto di andartene in un modo tragico e assurdo ma la presenza di quanti sono qui oggi è il segno del bene che hai seminato nei tuoi cinquantotto anni di vita. Ed è questo che noi non vorremmo lasciar cadere invano.

A nulla servono i nostri sensi di colpa: generano solo ulteriore amarezza. È per questo che come cristiani, anche in un frangente così drammatico e doloroso, lasciamo che a prendere la parola non siano i nostri sentimenti ma il Signore stesso. Mai come in questo momento affiorano in tutta la loro verità le parole di nostra sorella Rosetta alla morte di Cleto quando, guardando il Crocifisso posto dietro la bara ripeteva: “Signore, so di poter vivere questo momento perché tu lo hai vissuto prima di me e ora lo vivi con me”. E, ancora, quando era ormai consapevole di ciò che l’attendeva, mi ripeteva: “Non sanno cosa si perdono coloro che non conoscono il Signore”. Ed è proprio così.

Oggi tu la ritrovi nell’abbraccio misericordioso del Padre e sono certo che confermerebbe mille volte che ci salva solo una fede come la sua e come quella di mamma che oggi accompagna a questo appuntamento un secondo figlio in poco più di dieci anni.

È solo per la fede che possiamo leggere un momento di tensione con qualcuno come invito a fare il primo passo, è solo per la fede che possiamo leggere un’incomprensione come l’appello a non chiudersi risentiti, un momento di stanchezza come l’occasione per riconoscere ciò che mi appesantisce, una prova come l’opportunità per attingere forza dalla relazione con Dio, una umiliazione come la circostanza per imparare ad avere di me una giusta considerazione, la morte – anche questa tua morte così drammatica e disperata –  come l’occasione in cui affidarci umilmente al Dio della vita.

Aveva ragione chi scriveva che “la soluzione dei problemi non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta… Il particolare lo si risolve approfondendo l’essenziale” (don Giussani).

Dipendesse da noi, proprio perché impreparati alle partenze, riporteremmo mille volte indietro le lancette dell’orologio come Marta rimproverava a Gesù: “Se tu fossi stato qui…”. E lui, invece, proprio all’inizio di quel dramma non aveva trovato di meglio che riconoscere: “Questa malattia non è per la morte ma per la gloria”.

Ecco cosa ci manca: riconoscere il senso che abita ogni cosa e attraversa ogni situazione. Abbondiamo di cronaca ma siamo analfabeti di ciò che essa vorrebbe dire a noi. Ci manca la capacità di andare oltre la cronaca come egli stesso ha insegnato a fare ai discepoli di Emmaus.

Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?

L’apostolo Paolo oggi ci ripete: Nulla. Se Dio sta dalla nostra parte, noi semmai possiamo separarci da lui, ma mai egli prenderà le distanze da noi come attesta abbondantemente il suo sguardo che incrocia lo sguardo di Pietro nella passione.

Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio.

L’amore di Dio è immensamente più grande di quel cortocircuito che può colpire la mente e il cuore di un uomo in un momento in cui misura tutto il peso della sua fragilità e tutta l’incapacità a reggerlo da solo.

Noi, certo, restiamo con una ferita aperta, misuriamo il vuoto della tua presenza fisica, Mario, ma siamo altrettanto certi che nel mistero di quell’attimo in cui hai preso coscienza di ciò che stava accadendo, la tua stessa disperazione sia equiparabile a quel “ricordati di me, Gesù”, di cui ci ha narrato il vangelo.

Facendo nostre le parole del Salmo responsoriale così abbiamo pregato:

Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri.

Il salmista, ad un certo punto, fa alcune ipotesi di come l’uomo possa decidere di sottrarsi allo sguardo di Dio.

Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo là tu sei, se scendo negli inferi eccoti.

Non c’è luogo e non c’è esperienza in cui la misericordia di Dio non ci accompagni se non è il nostro rifiuto ostinato a impedirglielo. Per quanto frutto di un’angoscia che non hai saputo attraversare, non credo che il tuo gesto sia espressione di rifiuto dell’amore di Dio.

Il salmista ipotizza persino una situazione che ieri mattina deve essere stata la tua, caro Mario. Se dico: almeno le tenebre mi coprano e intorno a me sia la notte (quella nella quale sei entrato tu in quegli attimi e che ora attraversiamo anche noi), nemmeno le tenebre per te sono oscure e la notte è chiara come il giorno… Anche là mi afferra la tua destra.

Dio ti afferra anche là dove tu pensi che egli non ci sia.

Il tuo gesto, Mario, è eloquente e ci dice di non aver paura di parlare di noi e di ciò che ci tormenta e ci attanaglia. Ci invita a consegnarci a qualcuno così come siamo, senza infingimenti. È vero, a volte è faticoso e imbarazzante, persino, vergognoso, ma nessuno di noi equivale ai suoi errori o alle sue colpe palesi o nascoste. Noi siamo molto di più, siamo immagine di Dio. Se è vero che per il peccato, per le nostre scelte nel corso della vita –persino questa scelta – possiamo perdere la somiglianza, non perderemo mai l’immagine: essa è impressa in noi per sempre.

Tu, Mario, non sei il tuo ultimo gesto che per noi resterà incomprensibile: tu sei molto di più.

Questa è la nostra fede. E noi così speriamo e così sia.