cieco nato2Il brano evangelico di questa domenica ci consegna in contemporanea una storia di luce e una storia di ombre. Storia di luce, quella del cieco dalla nascita, che approda appunto da un buio durato tutta la vita alla luce. Storia di buio, quella dei farisei, sempre più inghiottiti dalla tenebra, sempre più ciechi. Storia di contrasti, appunto, contrasti insanabili.
Nel dipanarsi di questi contrasti troviamo un Gesù relegato all’inizio e alla fine. E il cieco da solo a sostenere la contrapposizione.
Ma in questo procedere della storia verso il buio o verso la luce, troviamo un Gesù dagli occhi aperti: “passando vide un uomo cieco dalla nascita”. Questo lungo episodio non annovera un grido di implorazione del cieco: sembrerebbe quasi non ne abbia più la forza. La speranza per lui e per noi sono quegli occhi aperti di Gesù, il quale si ferma a guardarci. La speranza non sono le discussioni, neppure quelle religiose. La speranza è uno che ti guarda.
Ora, il cammino verso la luce si fa strada lentamente. È un cammino graduale. Una gradualità che va rispettata e accolta anche nel nostro itinerario di fede. Non tutto ci è chiaro sin dall’inizio: riconosciamo l’incapacità a scorgere e custodire i germogli, a prestare attenzione ai percorsi segreti della luce, in noi ma anche attorno a noi. Custodire i germogli, prendersene cura, accompagnarli.
Il vangelo registra in un solo capitolo quello che a volte nella nostra vita richiede l’intero arco dell’esistenza: “Quell’uomo che si chiama Gesù”, dice il cieco; poi: “è un profeta”; poi: “è da Dio”; infine: “credo, Signore”.
Quante volte qualcuno vede in Gesù solo un grande uomo e magari abbiamo la pretesa che arrivi a riconoscere in lui Dio, il Signore. Non bruciare le tappe, non calpestare i germogli! Fa’ in modo che si dilatino, che abbiano vita, calore.
Storia di luce, quella del cieco.
Che cosa accade in quel cieco dalla nascita? L’incontro con Gesù provoca una trasformazione graduale ma non per questo incompleta.
Anzitutto, è un uomo libero, parla con franchezza, riesce a tenere testa a chi avrebbe preferito fosse rimasto nella condizione di mendicità. Non teme la sua ombra.
È poi un uomo che rifiuta gli stereotipi: c’è in lui una adesione al reale che gli permette di badare ai fatti non alle parole. Non ha paraocchi.
È infine un uomo che non ha paura, può anche sopportare la solitudine, l’esclusione, pur di non spegnere la luce che gli si è accesa dentro. Un uomo che ha una sua identità e perciò non dipendente dal gruppo, neppure dal gruppo religioso.
Storia di buio, quella dei farisei.
Uomini sulle cui labbra ricorre di continuo il termine peccato, quasi una sorta di ossessione. Una religione, la loro, ridotta a questioni di peccato. Anche i discepoli erano ossessionati da tale questione. Quando infatti vedono il cieco non riescono a fare di più se non discutere sul peccato: “Chi ha peccato…?”. Il peccato come categoria unica a partire dalla quale interpretare la realtà e come categoria decisiva per la fede.
E Gesù interviene senza mezzi termini: non impoverite la fede riducendola ad una questione di peccati. La fede è compiere l’opera di Dio. Cosa che a quei farisei  non interessa: addirittura la negano. Più che alle sorprese di Dio loro sono interessati alle classificazioni circa il peccato. Questi uomini sono legati ai loro libri, ai loro schemi, alla loro presunzione di sapere tutto, di vedere tutto e perciò di farsi legge per gli altri.
A che cosa assomiglia il nostro cammino? A un lento procedere verso la luce o al rigido convincimento di vedere già tutto chiaro?