Mai come in questo momento ne abbiamo bisogno. Di cosa? Di provare a guardare le realtà nella sua verità e non soltanto nel suo accadere, nella sua superficie. Erano stati giorni bui quelli che gli apostoli si erano lasciati alle spalle: un senso di smarrimento e – perché no? – persino di panico (proprio come …

Mai come in questo momento ne abbiamo bisogno. Di cosa? Di provare a guardare le realtà nella sua verità e non soltanto nel suo accadere, nella sua superficie.
Erano stati giorni bui quelli che gli apostoli si erano lasciati alle spalle: un senso di smarrimento e – perché no? – persino di panico (proprio come accade a noi in questi giorni) aveva messo in discussione certezze che fino a quel momento sembravano più che consolidate. Era bastato che Gesù dicesse chiaramente a cosa s’andava incontro che, persino la bella professione di fede di Pietro (“Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”), sembrava caduta nel dimenticatoio. Non diversamente da noi i quali, un po’ come il cappellano di bordo che al mattino a messa decanta la bellezza del paradiso, ma quando si sente dire dal capitano che sta arrivando la tempesta che porterà tutti in paradiso, esclama impaurito: ‘Dio ce ne scampi e liberi!’, anche noi, a fronte del tragico che incombe, non sappiamo più fare appello alla fede che resta compagna solo dei giorni lieti.
Tutto funziona finché le cose sono a un metro e mezzo di distanza da noi, per usare un’espressione che in questi giorni stiamo imparando ad assumere come stile. Oltre, vacilla tutto.
E allora capisco bene Gesù che, come quel giorno “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, oggi prende ciascuno di noi e lo porta in disparte, sul monte, proprio per cogliere l’oltre di ogni cosa, anche di un virus che sembra essere così letale. Lasciarsi condurre nei misteri imperscrutabili dell’amore di Dio, provare a guardare le cose da un’altra prospettiva: ecco quanto ci occorre, altrimenti continuiamo a reagire in modo maldestro.
Sembra quasi che il mestiere di Dio sia quello di far uscire, condurre fuori: al compimento dell’esistenza non si giunge che attraverso esodi continui e nuove nascite. Prima Abramo, dopo di lui tanti altri ancora, poi Pietro, Giacomo e Giovanni. Anch’essi avevano accettato l’avventura di lasciare affetti e mestiere per stare dietro ad uno che li aveva ingaggiati per qualcosa che non avrebbero mai immaginato di realizzare: pescatori di uomini. E sembrava potesse bastare.
Poi, però, erano venuti i giorni in cui l’annuncio del dramma che stava per incombere sul loro Maestro, aveva gettato tutti nello sconforto e nello smarrimento. Com’era difficile tenere insieme una prospettiva di vita alla quale avevano aderito con entusiasmo e senza esitazioni e quella che invece aveva a che fare con l’eliminazione fisica del loro Maestro! Cosa stava accadendo? E non era stato neppure il cedimento psicologico di un momento, se è vero che sul monte Gesù continua a parlare di questo (ci dirà Lc) anche con Elia e Mosè. Ma poi, come d’incanto, tutto era apparso nuovamente plausibile e l’entusiasmo aveva fatto di nuovo la sua comparsa per ciò che i loro occhi stavano contemplando. Come dar torto a Pietro che avrebbe messo la firma allo spettacolo del monte? Forse che non conosciamo la magia dell’incanto che ti fa toccare il cielo con un dito? È vero: è bello stare in una situazione come quella sul Tabor. Ma essa, per ora, non è la condizione definitiva: non è dato fermarsi, come non è possibile sognare ad occhi aperti una sorta di riparo a protezione per ciò che sta per abbattersi su tutti.
Se oggi abbiamo accettato di lasciarci portare in disparte, se per un attimo abbiamo provato a prendere le distanze da ciò che sta coinvolgendo tutti noi è per apprendere che la realtà va guardata solo dopo aver alzato lo sguardo e aver osservato uomini e cose come li vede Dio.
La trasfigurazione, ossia, imparare a coniugare l’abitudine e la creatività, il calcolo delle nostre relazioni e la larghezza del cuore di Dio, il disordine e il progetto, il momento e l’eterno, il traguardo e la meta, la croce e la gloria, la morte e la vita.
La trasfigurazione, ossia, imparare a stare nelle cose abitudinarie con lo spirito di chi ha già gustato l’inedito, frequentare i bassifondi della storia con negli occhi il progetto che Dio ha sulla storia nonostante le brutture, attraversare la prova con la consapevolezza che si tratta del travaglio per una nuova nascita.
La trasfigurazione, ossia, per parafrasare ciò che ripete A. Camus ne La peste, il flagello che ci martirizza è lo stesso che ci eleva e ci mostra la via.
Tutto questo, solo se acconsentiamo a lasciarci condurre fuori continuamente da Dio.