“Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio”. Chi di noi non desidera essere riconosciuto o non vorrebbe la conferma che ciò che ha compiuto è ciò per cui valeva la pena operare? Il bisogno del riconoscimento altrui è quanto, talvolta, anima le nostre scelte, muove le nostre passioni, orienta …

“Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio”.

Chi di noi non desidera essere riconosciuto o non vorrebbe la conferma che ciò che ha compiuto è ciò per cui valeva la pena operare? Il bisogno del riconoscimento altrui è quanto, talvolta, anima le nostre scelte, muove le nostre passioni, orienta i nostri passi. Per mancanza di riconoscimento, può persino accadere che una vita si spenga anzitempo.

“Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio”.

Gesù non sta parlando del contentino di cui necessitiamo per far sì che onoriamo gli impegni presi. Non si tratta neppure di attestare la nostra indispensabilità o sentirci dire grazie per ciò che abbiamo compiuto. Si tratta, piuttosto, di quella conoscenza che non fa finta di niente. L’essere riconosciuti davanti al Padre è direttamente proporzionale alla nostra capacità di non esserci girati dall’altra parte nella vita.

L’appartenenza al Signore non è mai un fatto intimistico e privato: quando è vera, essa è motivo di vanto in ogni circostanza, è capacità di non venir meno nei momenti di fatica, è palesare ciò che dà senso ai miei giorni. Anzi, proprio il momento conflittuale rivela cosa cerca il nostro cuore, per cosa si appassiona, per chi è disposto a giocarsi. Ce l’ho una ragione per cui dare la vita? Se sì, qual è? Ciò per cui sei disposto a pagare di persona, infatti, rivela ciò per cui hai scelto di vivere.

Al contrario, invece, quando scelgo di voltarmi dall’altra parte facendo finta di nulla, mi ritrovo a rinnegare quanto, un po’ spavaldamente, ho professato quando tutto sembrava confermare le mie scelte.

Accade eccome, infatti, che, talvolta, di fronte alla scelta tra un mio interesse e le ragioni della mia fede, io neghi ripetutamente proprio come Pietro nella passione.

La fede, però, è tale proprio quando sono posto di fronte alla possibilità di fare diversamente: è scegliere di non interrompere il rapporto con il Signore quando esso non è più scontato e spontaneo. Non a caso è la virtù della notte, di quando, cioè, non ho nessun motivo per andare avanti se non la forza di un legame che scelgo di non interrompere.

“Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata” (C. Pavese).

Come non rileggere alla luce di quanto affermato la vicenda umana, cristiana e politica del Presidente Emilio Colombo nel decennale della morte?

Non ho avuto la gioia di conoscerlo da prete. I miei ricordi si perdono nei primi anni 70 allorquando venne a Tramutola e io, uno scricchiolo che frequentava l’asilo delle Suore, fui da loro chiamato a recitare alla sua presenza una poesia e a omaggiargli dei fiori.

Il Presidente Colombo appartiene a quella stagione di uomini e donne che non hanno vissuto il cristianesimo del tempo libero a cui dedicare scampoli di ciò che avanza. La sua è stata una vera e propria vocazione politica (tanto da guadagnarsi il titolo di “totus politicus”) impregnata di ciò che aveva respirato nella Potenza del Venerabile Bertazzoni, di Mons. D’Elia e di Mons. De Luca che tanto hanno inciso sulla sua formazione umana e cristiana. Non il cristianesimo da sacrestia ma quello che riesce a informare dei suoi orientamenti ogni ambito della vita: “Chi opera in politica – affermava solo un anno prima della sua morte – deve servire l’uomo e la sua comunità e non il particolare, perché i popoli devono vivere anche di speranze”.

Da dove aveva mutuato il concetto della politica come servizio alla speranza dell’uomo se non dall’esperienza di un cristianesimo che non si rassegna allo status quo e perciò diventa capace di segnare rapporti e progetti, dinamiche e prospettive?

La responsabilità circa il momento presente è stata suo criterio guida fino alla fine. E anche se non aveva continuamente il Signore sulle labbra, di fatto era il vangelo la sua norma di vita: non si spiegherebbe altrimenti il suo impegno per chi non aveva voce, dalla riforma agraria alla legge sui Sassi, solo per citare due esempi tra gli innumerevoli altri suoi interventi. Essere lucano era motivo di orgoglio per lui.

Un cristianesimo, il suo, alimentato nel segreto del suo cuore e annunciato sui terrazzi della politica senza ostentazione e senza tornaconto. Il dramma odierno è, forse, quello di un cristianesimo annunciato sui tetti ma senza la previa frequentazione nel segreto del cuore o, per dirla più marcatamente, una militanza senza discepolato. Eppure, sappiamo che non regge al confronto con l’opposizione tutto ciò che non ha radici ben piantate nel cuore stesso di Dio.

Alla sua intelligenza fine e acuta, alla sua umanità discreta e attenta, l’esperienza di fede aveva aggiunto la capacità della visione, lo sguardo di chi non si lascia appiattire e imbruttire dal tempo che passa o dalla piccineria di alcuni ambiti istituzionali tanto civili quanto ecclesiastici. Sì, era un uomo che aveva una visione: da europeista convinto, intravvedeva ciò verso cui bisognava incamminarsi. E questo fino alla fine, nonostante la sua età veneranda. È rimasto sempre un signore, capace di mettere a proprio agio chiunque, anche un bambino come me che gli aveva omaggiato la declamazione di alcuni versi. È rimasto un signore persino nella fragilità allorquando non avrà paura di scrivere: “Nella vita ogni persona tenta di inviare messaggi positivi. Tra quelli negativi, da parte mia, c’è un episodio. Per il quale oggi, in piena onestà, mi sento di dover chiedere scusa”.

Chi mi riconoscerà davanti agli uomini…

Nonostante i limiti e le fragilità dell’uomo, credo sia quello che abbia sempre fatto il Presidente Colombo: restituire dignità a quanti erano segnati da una condizione sociale che li relegava ai margini della vita pubblica.

“Non abbiate paura degli uomini”.

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha mica se lo può dare”: ripeterebbe il don Abbondio di turno. E avrebbe tutte le sue ragioni perché il contrario della paura non è il coraggio ma la fede. È la fede a restituire la capacità di esporci e a non giocare a nascondino. È la fede a farci correre il rischio di essere riconosciuti come “suoi”, come dirà la serva a Pietro nella notte del rinnegamento e del pianto.

Abbiamo a lungo annunciato percorsi per salvare l’anima e, talvolta, li abbiamo individuati in una presa di distanza dalla storia, quasi un preservare zone franche e incontaminate. L’anima, però, nel vangelo corrisponde alla vita, a quella che noi chiamiamo la psiche. Eppure oggi in nome di un corpo da preservare contro il logorìo del tempo, rischiamo davvero di smarrire l’anima, ossia le ragioni del vivere, che è il male più difficile da esorcizzare.

Non abbiate paura… voi avete il nido nelle mani di Dio.

Don Antonio Savone, Vicario episcopale e Parroco della Cattedrale di Potenza