Un dolore sospeso, quello vissuto dalla vostra famiglia che, a distanza di otto giorni dall’incidente occorso al caro Camillo, si trova oggi a prendere congedo da lui. Questo è il momento in cui siamo chiamati a lasciar parlare il solo che, pur potendone fare a meno, è entrato anch’egli nella nostra morte aiutandoci a leggerla …

Un dolore sospeso, quello vissuto dalla vostra famiglia che, a distanza di otto giorni dall’incidente occorso al caro Camillo, si trova oggi a prendere congedo da lui.

Questo è il momento in cui siamo chiamati a lasciar parlare il solo che, pur potendone fare a meno, è entrato anch’egli nella nostra morte aiutandoci a leggerla da un’altra prospettiva.

Avremmo dovuto capirlo sin da quando, pur sapendo che il suo amico Lazzaro era malato, Gesù non si era mosso per raggiungerlo. Addirittura aveva reagito in un modo che potrebbe quasi infastidire: “sono contento per voi di non essere stato là”. Perché mai?

Forse, ci deve essere un altro modo di misurarsi con la malattia e la morte sebbene Marta proprio questo gli rimprovererà, di non essersi mosso per tempo. Forse, il silenzio di Dio a certi nostri appelli va affrontato diversamente.

Le espressioni dettate dal dolore e dall’amore, anche nella morte di Camillo, non sono mai blasfeme o improprie: sono il nostro modo di reagire a qualcosa che misura tutta la nostra impotenza a fronteggiare la malattia e la morte da soli.

Gesù, infatti, non ha parole di rimprovero né per Marta né per Maria. A far problema non è il suo ritardo o la sua assenza: il problema serio è come si colloca ciascuno di noi di fronte a eventi come questo. Il problema è su quale fuso orario è sintonizzata la mia vita: sull’orologio delle mie aspettative che vorrebbero piegare eventi, persone, situazioni ai propri desiderata o su quello dell’attesa che si misura anche con ciò che mai avrebbe voluto affrontare?

La differenza, com’è ovvio, la fai tu e la tua fede nel Signore: se questa è viva, tutto ciò che vivi ha seme d’eternità. La differenza la fa cosa viene a dire una malattia, una morte alla tua vita senza rimanere spettatore muto di qualcosa che avresti voluto impedire.

Marta, infatti, inizia a intuire che c’è in gioco altro e, per questo, prova a fare un salto in avanti: “anche ora so”. Marta inizia a comprendere che non basta essere venuti al mondo per dire di aver gustato la vita vera. Lei stessa, come riporta altrove il vangelo, si dava da fare per mille cose credendo di trovarla in quelle. Non è forse così anche per noi? Qual è il metro con il quale misuriamo di essere vivi se non l’investire le nostre energie in tante iniziative? Non diciamo, forse, che chi si ferma è perduto? Ma è davvero vita quella? Se così fosse, perché non siamo mai soddisfatti e perché non ci sentiamo mai sufficientemente realizzati?

Alla vita piena si giunge attraverso la morte delle nostre illusioni.

Il miracolo, infatti, non è che Lazzaro risorga (di lì a non molto sarebbe morto una seconda volta): il miracolo vero di cui la risurrezione di Lazzaro è segno, è la fede di Marta e Maria, è arrivare a credere che senza la luce che ci viene dalla fede, finiamo per subire gli eventi mentre siamo chiamati ad attraversarli.

Lazzaro è simbolo della condizione di ognuno di noi: portiamo avanti un’esistenza nel mondo ma come se fossimo in una prigione, incapaci di gustare da soli la vita vera.

Lazzaro, ossia il ripiegarsi allo status quo. Lazzaro vorrebbe custodire l’esistenza ma lo fa legandosi mani e piedi con bende da cui non riesce a liberarsi da solo.

Vedrete la sua gloria. La gloria è la rivelazione di chi è Dio e la si vede proprio quando si tocca il fondo. L’acqua viva la si gusta nell’arsura più profonda, la luce vera la si riconosce nella tenebra, la vita la si assapora nella morte.

“Credi tu che io sono per te la risurrezione e la vita?”, ripete Gesù alla Marta di sempre.

A lei che si rifugia in risposte preconfezionate che rimandano a un tempo di là da venire, Gesù chiede quanto è disposta, qui ed ora, a fidarsi di lui. In gioco, infatti, c’è il non morire da vivi o, meglio, il non vivere come morti.

Il racconto della morte di Lazzaro riporta le nostre domande: “Signore, se tu fossi stato qui…”. E mentre patiamo questo dolore, i nostri occhi incrociano il Signore che, “per grazia, non è un Dio dagli occhi asciutti”.

È questo che ci può far dire: “in vita e in morte siamo tuoi, Signore. Confermaci in questa fede”.