Superiamo non pochi ostacoli nella nostra vita ma come stare di fronte alla morte che misura il nostro limite più invalicabile? Non poche volte l’impossibilità a far fronte a questo muro insormontabile getta nel non senso tutto quello che proviamo a realizzare. Cos’altro era quella legge mosaica secondo la quale il cognato doveva sposare la vedova senza figli, se non il tentativo di porre un rimedio alla violenza della morte che tutto divora? È più forte di noi il desiderio che la nostra vita non venga inghiottita dal nulla. E tuttavia ogni tentativo di proiettare la vita oltre i limiti imposti dalla morte, non cessa di risultare vano.
Come si fa a credere alla risurrezione dei morti quando, il caso di una donna che aveva avuto sette mariti e preso a pretesto dai sadducei, solleva quanto meno il ridicolo e il discredito? A chi apparterrà la sua vita? La domanda è seria: a chi apparterrà la mia vita? C’è qualcuno a cui essa sta a cuore non solo mentre scorrono i giorni ma anche quando essa entra nell’abisso della morte?
Con quel loro modo di fare tanto ossequioso quanto falso in realtà i sadducei hanno già chiuso ogni possibile dialogo sul tema della risurrezione. Quel tema sarebbe bastato per far cadere finalmente in trappola quello strano maestro che tanto successo riscuoteva tra la gente.
Per quei sadducei, infatti, (solo per loro?) tutto si esaurisce all’interno della vicenda terrena dove l’unica preoccupazione è quella di farsi un nome assicurando la discendenza a un maschio grazie a una donna che non ha alcuna personalità, solo oggetto di riproduzione. Per loro tutto si conclude con la morte. Sono incapaci di parlare di vita. Il loro tipo di dogmatismo non permetteva di ammettere nessuna comprensione nuova della vita: la loro era una vera e propria teologia pietrificata. Essi riconoscevano, infatti, soltanto i primi cinque libri della Bibbia, dove – a loro dire – non si fa accenno alcuno al tema della risurrezione sviluppatosi soltanto molto tardi.
Gesù, come sempre del resto, sta al gioco proprio facendo riferimento ai libri che essi riconoscono. E tuttavia sposta l’attenzione su un altro piano allargando la prospettiva. Il tema della vita senza fine, infatti, non è un insegnamento del tutto nuovo: esso è già presente nella loro stessa tradizione. “Se Mosè stesso ha incontrato YHWH come il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe, allora questi Patriarchi devono essere vivi anche adesso, altrimenti YHWH sarebbe un Dio dei morti!”.
Noi siamo di Dio – ecco la lieta notizia per noi – apparteniamo a lui da quando egli ha scelto di appartenere a noi: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Le varie appartenenze che sperimentiamo in questa vita (a un marito, a una moglie, a dei figli, a una comunità) prima o poi cessano per cedere il posto a una appartenenza che non verrà mai meno: apparteniamo a Dio. È questa appartenenza che dà significato ai legami che intratteniamo in questa vita. E i nostri legami sono veri nella misura in cui sono segni di quella appartenenza definitiva (vivo così il mio matrimonio o il mio appartenere a una famiglia, a una comunità?). E siccome Dio è fedele, il suo amore non viene mai meno, neanche nella morte: tu non lascerai che il tuo santo veda la corruzione… Si è talmente legato a noi in vita da donarci speranza persino oltre la morte: sia che viviamo sia che moriamo noi siamo del Signore. Non è forse questo che ha donato al Signore Gesù la capacità di vivere senza smarrimenti il suo cammino verso la morte, il sapere, cioè, che avrebbe potuto affidarsi alle mani del Padre proprio mentre stava per morire? Se Dio è con noi anche nella morte, possiamo essere certi che saremo con lui nella vita senza fine. Siamo suoi.
Ora, non è possibile pensare un paradiso a misura delle nostre esperienze, un luogo in cui perpetuare quelle che pure sulla terra sono esigenze nobili, come il generare. Per i sadducei era solo un discendente a poter assicurare a un uomo il futuro. Gli sterili, infatti, non avevano futuro: per questo erano visti come maledetti da Dio.
Quella del paradiso non sarà una vita terrena migliorata: non sarà più necessario sposarsi perché lo scopo del matrimonio sarà stato raggiunto: saremo per sempre nell’amore di cui il matrimonio è sacramento in questa vita. Proprio perché godremo dell’amore, lì non avremo più bisogno di ciò che sulla terra è un mezzo (non tutti, infatti, si sposano) per poterlo incarnare ed esprimere. Lì non sarà più necessario perpetuare un nome che assicuri il nostro ricordo: il nostro nome è già scritto nel cielo nella misura in cui accogliamo la vita a la comunichiamo per il bene dell’altro, diventando già ora già qui figli della risurrezione, anticipando quello che vivremo in pienezza.
Saremmo da compiangere – dirà Paolo – se abbiamo avuto fede in Dio solo in questa vita.
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Dal Vangelo secondo Luca (20,27-40)
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». E non osavano più rivolgergli alcuna domanda.