Li aveva scioccati probabilmente quando, appena prima del nostro brano, sollecitato da uno dei discepoli che si era fermato ad ammirare la bellezza e la maestosità del tempio, simbolo dell’identità di un intero popolo, Gesù aveva proferito quelle parole che sono rimaste proverbiali: non resterà pietra su pietra… (Mc 13,1-2). Quelle parole avevano toccato il cuore stesso non solo della loro fede, ma persino della loro identità politico-culturale. Il tempio! Ma ci pensate?

E poi, con un linguaggio che non ha nulla di descrittivo, li aveva invitati a cogliere nella fine di ogni cosa – tempio compreso – non tanto la fine di un mondo quanto l’inizio di una nuova opportunità.

Non passerà questa generazione… Certo il riferimento era a quella precisa generazione. Tuttavia, lo è per ogni generazione di credenti chiamata a confrontarsi con la storia, la propria storia. Così come accade. Anche nel suo versante tragico o drammatico. Soprattutto in quello più difficile da decifrare. A tema, infatti, quest’oggi troviamo proprio il tempo e il nostro rapporto con esso.

Accadrà così anche ai discepoli che di lì a poco verranno confrontati da un evento scandaloso come la passione e la morte in croce del loro maestro nel quale avevano riposto ogni loro speranza di restaurazione. Non saranno in grado di togliere il velo (cos’altro vuol dire apocalisse se non togliere il velo?) che copre un fatto drammatico e fallimentare come la croce.

Accade ancora a noi, anche a questa generazione, di subire gli eventi: E noi ci scopriamo analfabeti di vangelo, convinti come siamo che solo ciò che appare plausibilmente convincente sia in grado di alimentare l’aspettativa di aver guadagnato definitivamente delle certezze. Non abbiamo ancora appreso che anche i momenti di grazia non sono cristallizzabili come invece pretenderemmo.

Proprio nulla di tutto ciò che appare certo, chiaro e convincente, che riteniamo solido tanto da costruirci su la nostra esistenza, rimarrà stabile: il sole si oscurerà… Basti pensare a quante cose della nostra vita ritenevamo un assoluto e invece… E proprio mentre tutto crolla, passa, c’è un Dio alla porta. Che bussa e chiede di essere riconosciuto. Anche qui. Anche ora.

E noi altaleniamo tra nostalgia, paura e rassegnazione, magari ricercando in modo spasmodico qualche segnale anticipatore della fine. La prova di quest’oggi sembra oscurare la certezza del domani. Della serie: se si continua così dove andremo a finire?

È decisamente a tinte fosche l’immagine del nostro tempo, con uomini impauriti per catastrofi imminenti o per la lotta senza speranza contro un destino già scritto o per la natura ostile. Basterebbe dare un’occhiata alla recente produzione cinematografica. Il nostro immaginario collettivo è intriso di catastrofismo e di sfiducia generalizzata. E quel che più è terribile – in ogni ambito, da quello culturale a quello politico a quello ecclesiale – è che mancano i saggi, di cui parla il profeta Daniele: persone, cioè, capaci di indicare nella fine un inizio, di cogliere l’oltre, il senso e la portata di ogni evento.

A scorrere le pagine del vangelo emerge un dato che deve farci riflettere: quel giorno è fatidico per chi ha scelto di non prendere sul serio questi giorni. L’immagine della morte disturba quando facciamo fatica a pensare seriamente alla vita. La storia del mondo non è affidata alla previsione dell’astrologia e non dipende neppure da qualche arcano manoscritto. La storia è nelle mani di Dio. Mani da cui niente e nessuno potrà mai strapparci anche qualora dovessimo perire di morte violenta. Un giorno, nel vangelo di Gv, Gesù affermerà che il Padre non vuole che alcuno perisca di coloro che gli sono stati affidati.

Come stare nella storia? Con fiducia, imparando a sperare. Imparando dal fico, suggerisce Gesù. Non registrando catastrofi ma intravedendo e portando alla luce segni e germogli di speranza. È una questione di occhi, è vero. Ed è una questione di mani, mani capaci di tessere fin d’ora un frammento di fraternità e di bellezza, segno e primizia di quello che un giorno vivremo in pienezza.

Con una consapevolezza: Dio è fedele alla promessa e vigila sulla storia, sulla nostra storia anche quando essa non ci risparmia il suo aspetto minaccioso. Il mondo è destinato a passare. E perciò nel succedersi di eventi e situazioni già scorgere il venire di Dio, il suo entrare nella mia storia personale. I discepoli sono chiamati a trasformare responsabilmente il presente della storia in grembo del futuro, un futuro non temuto ma atteso e preparato anche se sfugge a qualsiasi calcolo previsionale. Dio porterà a compimento quanto noi abbiamo permesso di maturare nel bene e nell’amore. Per questo noi non siamo come chi non ha speranza, direbbe Paolo.