Imparare a frequentare la scuola del riconoscimento e della gratitudine. È a questa scuola che ci conduce oggi la liturgia della Parola. Una scuola troppo spesso disertata, abituati come siamo a dare ogni cosa per scontata. Lo straniero che torna indietro da Gesù riconosce che la guarigione ricevuta non gli è dovuta. Quell’uomo ha scoperto che la sua guarigione è frutto soltanto della gratuità dell’amore di Gesù. Gli altri nove – abituati a ricevere – non sono approdati a questa consapevolezza. Era accaduto a loro ma accade anche a noi di usufruire di doni dimenticando chi c’è dietro quei doni. Quanti doni di grazia ci sono partecipati!
Penso anzitutto al nostro venire in chiesa di domenica in domenica per essere ritemprati nelle forze mentre abbiamo accesso alla comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, noi che pure non siamo degni di tanta grazia. Poi penso al nostro essere stati preferiti alla morte mentre aprivamo gli occhi alla luce, penso al battesimo ricevuto, all’educazione che ci è stata trasmessa, al perdono che ci è stato offerto tante volte nel sacramento della riconciliazione. Penso alle tante persone che sono state per noi presenze significative da orientare a volte scelte e percorsi. Penso al matrimonio con cui tanti di voi hanno voluto legarsi indissolubilmente ad un’altra persona diventando segno dell’amore di Dio per ogni uomo. Penso al sacerdozio, alla vita religiosa. Penso all’amicizia che rende lieve il passo. Quanti doni!
La salvezza – ci attesta lo straniero del vangelo – ha inizio quando hai qualcuno a cui gridare il tuo bisogno, il tuo dolore, sia esso un dolore fisico o una pena interiore che ti lacera a volte più di un dolore fisico. La lebbra, in fondo, è simbolo della condizione di ogni uomo. Tutti, in qualche modo, assistiamo ad un corpo che si disfa e cade a pezzi e a un cuore che sembra quasi anestetizzarsi. Tutti partecipiamo del venir meno delle forze o dello smarrire le ragioni per continuare a fare quello che stavamo facendo. E di fronte a questo ci scopriamo impotenti. Ma la tragedia, appunto, non è tanto assistere a questo nostro morire quotidiano quanto il non avere qualcuno con cui condividere la propria pena. Eppure non poche volte Dio ha suscitato per noi qualcuno che diventava il tramite di una salvezza possibile, di uno sguardo altro su quanto ci angosciava. Non poche volte, se il problema non è stato eliminato, la pena, però, si è fatta più lieve.
Tornare indietro… ecco ciò che fa la differenza. Imparare a ritrovare le ragioni di una serenità riconquistata, di una speranza ritrovata. Imparare a riconoscere, appunto. E imparare a ringraziare. Perché posso dire di essere felice, sereno? A chi lo devo?
Ringraziare è ciò che in un bambino fa sviluppare una buona attitudine ad avere relazioni mature perché indica il passaggio da una esistenza autocentrata a una esistenza aperta nella capacità di dare e ricevere. Sin da piccolo, quando riceve un regalo il bambino è talmente preso dal dono da dimenticare chi glielo ha donato. Di solito è la mamma che lo invita a ringraziare: “come si dice?. “Grazie!”. In realtà, la maturazione umana si configura proprio come lo sviluppo progressivo di questa capacità. Che cos’è che potrà spingere un giovane fino al dono totale di sé all’interno di una relazione o in una forma di consacrazione, all’esserci per qualcuno e al vivere per esso, se non la gratitudine per quanto ha scoperto di aver già ricevuto?
Davvero Signore, che cos’è l’uomo perché ti prendi cura di lui? (Sal 8). Non c’è nulla che non abbiamo ricevuto.
Il dramma comincia quando concludiamo di poter bastare a noi stessi, quando ci chiudiamo nella nostra autarchia, convinti di disporre delle risorse per affrontare ogni evenienza e di essere in grado di poter realizzare ogni cosa, considerando gli altri soltanto come funzionali a noi stessi. Chi si chiude nella campana di vetro del suo egocentrismo, finisce per somigliare a un bambino capriccioso incapace di frequentare lo spazio della gratuità.
Ma che cos’è che può far maturare in noi il senso del riconoscimento e della gratitudine?
Anzitutto la semplicità, cioè uno sguardo pulito che sa cogliere le cose nella giusta luce. Tutti e dieci i lebbrosi furono guariti ma uno solo fu in grado di riconoscere in quel nuovo stato, un’esperienza di amore incondizionato. Imparare a lasciarsi toccare dall’amore e riconoscerlo.
Poi la consapevolezza di essere poveri. La vita non mi appartiene, mi è donata perché io la condivida. Che cos’altro vorrebbe creare in noi il pregare al mattino, se non il permanere in questa consapevolezza? Ti è donato immeritatamente un nuovo giorno di vita. Solo chi sta così nella vita non si appropria mai dell’altro ma lo serve con rispetto e simpatia. Solo questa consapevolezza sa essere grata per la varietà e l’originalità con cui Dio ha dato l’esistenza a ogni uomo.
Infine una memoria capace di custodire. Imparare a conservare ogni cosa in maniera costruttiva. E così la sera non mancheranno motivi per rendere grazie a Dio ma anche a chi vive con noi, a quelli che abbiamo incontrato, a chi si è fatto compagno di cammino, a volte senza saperlo.
Se non diserteremo la scuola del riconoscimento e della gratitudine, i nostri occhi non si spegneranno e saremo in grado di vivere il giusto rapporto con tutto ciò che esiste.
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Dal Vangelo secondo Luca (17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».