A Pietro e agli altri discepoli che con sincerità ed entusiasmo avevano detto di riconoscere in lui chi essi da sempre attendevano, Gesù aveva chiesto di rinunciare a se stessi e di assumere la croce ogni giorno, vale a dire: ogni giorno assumere quell’elemento di fatica che la vita comporta quando la si vuole vivere in verità. Affatto scontato o facile. Non poche volte, infatti, misuriamo sulla nostra stessa pelle una sorta di conflitto interiore tra ciò che desideriamo profondamente e il come poterlo realizzare.

Sarà costato anche a lui e non poco prendere la ferma decisione di dirigersi verso Gerusalemme. Perché mai questa determinazione e questa risolutezza nell’intraprendere un cammino che peraltro si rivelerà fallimentare al prezzo della sua stessa vita? Perché “la tua grazia vale più della vita…”, così ripete il salmista. C’è qualcosa che conta più di se stesso e questo qualcosa non è condizionato dall’accoglienza o dal rifiuto. C’è. E tanto basta. C’è in me qualcosa che vale almeno la mia stessa esistenza se non di più?

Facciamo fatica a star dietro a un simile Gesù: lo avevano compreso molto bene quei Samaritani che non vollero accoglierlo proprio perché la sua faccia era quella di uno che va a Gerusalemme.

C’è un villaggio di Samaritani anche per noi: una realtà, cioè, che continuamente misura la consistenza o l’inconsistenza dei nostri progetti e desideri. Molto spesso, quanto portiamo nel cuore si infrange e sfuma al primo villaggio di Samaritani. E tutto svanisce nel nulla e nel risentimento. L’invito è a non fermarsi al primo ostacolo nella consapevolezza che c’è ancora un villaggio verso cui incamminarsi.

Ma che faccia sarà mai stata quella di uno che va a Gerusalemme? Doveva essere la faccia di chi ha scelto di essere segno di un altro modo di stare al mondo; un modo che contempla addirittura il rendersi estraneo all’ambito rassicurante di parenti e amici; il modo di chi, se una violenza è da esercitare – come avevano proposto Giacomo e Giovanni – questa non è certo verso gli altri ma verso se stesso, verso tutti quegli aspetti di sé che poco hanno a che vedere con il vangelo. E la mia che faccia è? Cosa dice il mio volto? Cosa annuncia? Di cosa è segno? Si legge su di esso la passione che abita il mio cuore?

Gerusalemme non è tanto un luogo fisico: essa rappresenta piuttosto quella situazione o quella realtà in cui si è chiamati ad esprimere ciò che più ci sta a cuore, ciò che anima il nostro essere al mondo. Ciascuno ha la sua Gerusalemme verso cui decidere se volersi incamminare con risolutezza e determinazione. Questo è quello che ha scelto per sé il Maestro, questo è quello che egli chiede, senza mezze misure, a chi vuol essere suo discepolo. La vita è cammino, è sequela, è viaggio: lo spostamento è la cifra della fede. Continuamente chiamati a smontare e rimontare la propria tenda là dove il Signore chiede di piantarla. E questo è sempre accompagnato da non poche difficoltà e da innumerevoli resistenze e timori perché non tutto è programmato in partenza. La disponibilità ad assumere l’imprevisto non è qualcosa che si improvvisa: perché accada è necessaria una decisione previa: quella di accettare di stare nello spostamento. Altrimenti non si comprenderebbe il fatto che, anche a prezzo della sua stessa vita, Gesù abbia scelto di proseguire risoluto il suo viaggio. Nulla potrà bloccare o impedire quel percorso.

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Dal Vangelo secondo Luca 9,51-56

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.