‘Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!’…
Una scena molto comune, quella evocata da Gesù: alcuni ragazzi giocano a ridere e a piangere. Dei musici suonano un canto lieto o un brano mesto. Ci si attenderebbe che gli spettatori interagiscano. E invece no. Non gliene va bene una: di fronte a Giovanni che è più che profeta (Mt 11,9) o di fronte a Gesù che è Messia, questa generazione recalcitra proprio come farebbero dei bambini capricciosi.
Il riferimento è a quanti cioè stanno nella vita come se non... Se l’interazione non accade, è segno evidente che la cosa non interessa.
La vita secondo la categoria del pretesto traduce la non volontà di accogliere il reale come accade. Quando la realtà (intendendo con questo termine persone, eventi, situazioni) smentisce la propria aspettativa, l’antidoto è quello di screditare l’evento interlocutorio: Ha un demonio… è un mangione e un beone. Eppure la realtà, la storia ha sempre carattere sacramentale. Si tratta di cogliere l’oltre che il velo della realtà cela.
Dietro il pretesto, il desiderio più o meno conscio di essere lasciati in pace: il rifiuto come sistema di vita di fronte ad una proposta o al suo contrario.
Non univoco il linguaggio di Dio: si tratta di riconoscerlo e di sintonizzarsi. Può accadere, tuttavia, di scoprirsi incapaci di discernere i segni del suo avvento, proprio nel variare dei tempi e dei modi attraverso cui Egli si manifesta.
L’incoerenza delle folle è pubblica e Gesù la mette in evidenza: il non riuscire a mettersi al ritmo della musica suonata. Una vera e propria non volontà. Il non voler essere scomodati si traduce, purtroppo, in accusa offensiva: la vita austera del Battista diventa il motivo per muovergli l’accusa di essere un ossesso e quella conviviale di Gesù con pubblicani e peccatori, diventa l’occasione per accusarlo di essere un fannullone.
Sempre in cerca di certezze e di ‘ragionevoli’ dimostrazioni d’evidenza mentre Dio si rende presente con segni discreti mai imposti, sempre da riconoscere.
L’azione di Dio nella storia trova il riscontro non già in una appartenenza identitaria vantata dagli interlocutori (altrove diranno: siamo figli di Abramo) ma dai frutti che essa suscita in chi alla predicazione di Giovanni come a quella di Gesù si è convertito.
La vita non come obiezione ma come occasione, non secondo un atteggiamento che esprime riserve su tutto ma nella disponibilità ad affidarsi.
Questo tempo è un invito a prendere parte alla danza di Dio: beati noi se sapremo interagire al suo ritmo.
L’invito che vi è sotteso è quello di imparare a capire questi tempi, a riconoscerli, anzitutto. Capire i tempi significa accogliere l’ora di Dio, riconoscere la sua volontà. I contemporanei del Battista e di Gesù, non riusciranno affatto a riconoscere i tempi, tanto che vedranno nei prolungati digiuni del primo una manifestazione demoniaca e nel banchettare del secondo il segno che fosse un mangione e un beone.

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Dal Vangelo secondo Luca (7,31-35)
 
In quel tempo, il Signore disse:
«A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così:
“Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”.
È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”.
Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».