La morte ci visita sovente: o perché ci strappa parenti e amici o perché ci chiede di chiudere una partita per aprirne un’altra. Ciò che a volte ci impedisce di guardare alla morte come feconda è il dolore del travaglio, la fatica dell’accettare che qualcuno o qualcosa si allontani da noi. Dipendesse da noi, infatti, cristallizzeremmo persone ed eventi, quasi fermando il tempo…
Quella morte che per noi suona come un’avventura senza ritorno è in realtà qualcosa di provvisorio: essa non è l’ultima parola sulla storia del mondo e sulla vita dell’uomo.
Nel Cantico dei Cantici è scritto che c’è una realtà più forte della morte, ed è l’amore: più forte della morte è l’amore. La morte di Gesù ci ricorda proprio questo: ha talmente amato che la morte non ha potuto costringerlo più a lungo in una tomba.
San Giovanni gli farà eco: Da questo sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, se amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Da temere, infatti, non è la morte fisica, ma quella che accade mentre si è ancora convinti di vivere.
La paura della morte arretra se si accetta di lasciar cadere lungo la propria strada il mantello dell’egoismo per indossare quello della compassione con il quale ricoprire se stessi e i propri fratelli in umanità.
La paura della morte arretra se accettiamo di vivere ogni nostra giornata non nel timore ma con la consapevolezza di una avventura ancora aperta. Il peccato più grave di cui forse chiedere perdono è spegnere la vita nella banalità, in una sorta di appiattimento indistinto. Non viviamo i giorni nella perenne riedizione di un passato. Ogni attimo è un istante nuovo con cui misurarci e in cui imparare a ripetere: eccomi, o Padre.
Se accettassimo di vivere la vita con l’intensità e la gioia del primo giorno e con la consapevolezza lieve dell’ultimo giorno come si essenzializzerebbe la vita! Avremmo il senso di ciò che passa e di ciò che permane, di ciò che vale e di ciò che non vale. Vale soltanto quello che resta e resta soltanto quello che vale: non è un gioco di parole.
Impariamo a ridare il giusto valore a ogni nostro gesto, a ogni nostra parola: verremo trovati pronti per l’ultimo gesto umano che saremo chiamati a compiere, quello del nostro consegnarci alle mani del Padre.
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Dal Vangelo secondo Luca 7,11-17
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.