Il tempio, la strada di Damasco, il mare di Tiberiade: è questa la geografia dello Spirito a noi consegnata nella vigilia dei Ss. Pietro e Paolo. Luoghi diversi e distanti l’uno dall’altro, nei quali viene dischiusa una precisa immagine di Chiesa.
Nei pressi del tempio un uomo impossibilitato ad entrarvi e l’immagine suggestiva di Pietro che ridona allo storpio l’opportunità di riprendere il cammino. L’immagine di un Pietro figura di un preciso volto di Chiesa che non ha né argento né oro. Espressione che ci dà la giusta misura dell’avventura di Pietro e di Paolo e con loro dell’intera comunità cristiana consapevole di possedere solo Gesù Cristo, non già come un patrimonio su cui avanzare diritti di esclusiva ma come dono da condividere con ogni uomo sulla terra. Gesù Cristo, l’essenziale per Pietro, per Paolo, per la comunità dei discepoli. Gesù Cristo, non una dottrina, ma – come attesta la stessa etimologia del nome – l’essere introdotti nell’esperienza di un Dio che salva. Si configura così l’unica ricchezza di cui dispone la comunità dei discepoli: compiere l’opera stessa di Gesù di Nazaret il quale – attestano gli Atti – passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Nessun potere umano ma quello di restituire speranza. Ecco quando possiamo rivendicare la prerogativa di essere discepoli: solo quando avvertiamo come urgente il compito e la passione di introdurre l’altro in una esperienza di vita.
Il gesto di Pietro nei confronti dello storpio è immagine dell’azione di una Chiesa che si approssima – si fa prossimo – di una umanità ferita, nei confronti della quale prolunga i gesti del suo Signore, mettendola nella condizione di camminare con le proprie gambe e offrendole la possibilità di entrare in comunione piena con Dio. Il paralitico guarito, infatti, scopre un accesso finora precluso: entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio (At 3,8). Pietro immagine di una Chiesa contenta della compagnia degli uomini. Quell’uomo escluso è ammesso nella compagnia di Pietro e Giovanni: con loro.
Sulla strada di Damasco viene delineata da Paolo, invece, un’altra immagine di Chiesa. Quella di una Chiesa consapevole di essere quello che era: ancorata alle tradizioni dei padri, a quel modo di intendere la vita, la fede secondo cui tutto, Dio compreso, è da meritare, da conquistare. Sulla via di Damasco, nell’esperienza di Paolo, si dischiude un nuovo modo di concepire la vita e la fede, un vangelo, appunto e per grazia si diventata partecipi di ciò di cui Dio ci fa dono. Testimoni di una misericordia che a nostra volta abbiamo ricevuto e di cui siamo costituiti debitori nei confronti dell’umanità. Una chiesa consapevole del dono ricevuto.
Sul lago di Tiberiade la pagina della fiducia restituita.
A Pietro che per tre volte ha rinnegato il suo Signore e Maestro affermando solennemente: non sono!, per tre volte viene chiesto di esprimere il suo amore per Gesù. E Gesù lo fa anzitutto puntando alto: mi ami tu più di costoro? Del resto era stato lo stesso Pietro a proclamare un amore simile ancora tutto da passare alla prova degli eventi: anche se tutti ti abbandonassero io… E tuttavia, ora che i fatti registrano tutt’altro esito rispetto alla proclamazione, Pietro assume una misura umile: ti voglio bene. E così per due volte. La terza, è Gesù stesso ad assumere la misura di Pietro: mi vuoi bene? Tu sai tutto, risponde Pietro, tu sai… Un Dio che per farmi diventare ciò che sono chiamato ad essere mi prende per quello che sono.
Un amore che questa volta avrà la sua cartina di tornasole non nella dichiarazione di un affetto generico e vago, ma nel prendersi cura di coloro che il Signore gli affida: i più piccoli. Se è vero che mi vuoi bene, prenditi cura dei miei piccoli. A Pietro non è consegnato un privilegio o un potere come un giorno forse avrebbe desiderato quando immaginava un Messia potente ma il compito di mettersi a servizio dei fratelli fino ad entrare in una disponibilità finora impensata.