Non finiremo mai di comprendere appieno il di cui la festa del S. Cuore è memoria e annuncio. Resistiamo non poco, infatti, alla rivelazione di un rapporto che non ripaga mai con la stessa moneta l’offesa ricevuta. Ci sembra assurdo e, perciò, incredibile.
Più volte nel vangelo, quando qualcuno ha creduto di aver capito l’identità di Gesù, non ha tardato ad arrivare l’invito a tacere. Puoi comprendere qualcosa di Dio solo a partire dalla croce e dalla risurrezione. Se non rileggi la sua vicenda a partire dalla fine, ogni altra conclusione sulla persona di Gesù non solo è affrettata ma è esposta all’equivoco.
Per questo, Gesù non ha mai avuto paura di dire come stavano le cose: avrebbe conosciuto sofferenza e rifiuto, avrebbe fatto esperienza di una morte violenta comminata addirittura dalle autorità religiose. E dopo questi fatti sarebbe risorto.
L’inaspettata vittoria ci sarebbe stata ma soltanto dopo una tragica sconfitta: le due cose non possono essere slegate.
Ma questo non è degno di Dio, pensa il Pietro di turno. Per questo non si farà scrupolo nel rimproverare Gesù. E Gesù non si farà problemi nel riconoscere che un simile modo di pensare è drammaticamente diabolico.
Per ogni uomo, se Dio è Dio non può non essere forte, dispotico e giustiziere così da mandare all’aria le trame degli uomini. Non può non essere vendicativo. Cosa te ne fai di un Dio debole?
Non a caso, il giorno in cui riuscirà a ricomporre le tessere del mosaico, Pietro si scioglierà in un pianto senza eguali. In fondo è vero, preferiremmo di più un Dio da temere che da amare. E, invece, continua a ripeterci: “A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore”.
Il Dio che oggi contempliamo in questa festa è inerme quando lo offendo, indifeso quando è sopraffatto, non replica a chi lo fa soffrire perché conosce amore, solo amore.
Se si fosse manifestato imperioso, sarebbe stato un Dio da rispettare e di cui aver paura, non certo da amare. La consegna di Gesù al corso degli eventi ce lo mostra così vicino a noi e tanto partecipe della nostra condizione da far cantare all’autore dell’Adeste fideles: “sic nos amantem quis non redamaret?” (chi non ricambierebbe uno che ci ama così?).
Il nostro Dio crede che nessuna situazione, per quanto negativa, possa precludere definitivamente la possibilità di una vita nuova. Anzi, proprio l’errore, lo strappo, la ferita, il legame negato brutalmente, diventano occasione per accedere ad una condizione nuova del rapporto con lui.
Il perdono offerto, la misericordia sperimentata non strappano le pagine buie della nostra vicenda: proprio quelle pagine sono l’esperienza nella quale ci è dato sperimentare la sovrabbondanza dell’amore del Padre e il motivo di una festa alla quale sta a noi scegliere di voler partecipare o meno. Le pagine buie della nostra memoria sono quelle nelle quali Dio non ha mai posto sotto intermittenza la sua paternità anche se noi avevamo posto sotto intermittenza la nostra figliolanza.
Anche allora egli ha continuato a volerci, a sceglierci, a cercarci, a non dimenticarci.
Nasce qui la vita cristiana: dalla consapevolezza che Dio ha continuato a volerci proprio quando noi non avremmo voluto sapere più nulla. Ci ha amato gratuitamente, in anticipo e mai in risposta alla nostra capacità di riconoscerlo e accoglierlo.
È alla luce di questa rivelazione che ricordiamo Mario professando la nostra fede nella certezza che Dio non ha messo sotto intermittenza il suo essere padre anche in quell’istante in cui Mario ha scelto di congedarsi da questo mondo.
Se è vero che ci portiamo la notte nel cuore e, forse, il nostro dolore fatica a sopportare la luce, è altrettanto vero che il cuore di Cristo è più grande di ogni dolore. Ed è lì che noi cerchiamo rifugio e da lì attingiamo forza e senso per i nostri giorni.